Il 28 ottobre del 1922, con la marcia su Roma, Mussolini prende il potere. Dietro le manovre di normalizzazione politica operate dal regime l’azione repressiva prosegue per culminare con l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno 1924. La crisi vissuta dal regime nei mesi successivi viene superata da Mussolini all’inizio del 1925, quando il duce decide la svolta totalitaria attraverso una serie di provvedimenti liberticidi (le “leggi fascistissime”), che annulleranno - di fatto - qualsiasi forma di opposizione al fascismo.

La repressione fascista 

Sul piano sindacale, con gli accordi di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, Confindustria e sindacato fascista si riconoscono reciprocamente quali unici rappresentanti di capitale e lavoro abolendo le Commissioni interne. La sanzione ufficiale di tale svolta arriva con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, che riconoscendo giuridicamente il solo sindacato fascista - l’unico a poter firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro - istituisce una speciale Magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro, cancella il diritto di sciopero.

“La serrata e lo sciopero sono vietati”, recita l’art. 18 della legge, specificando l’articolo successivo: “I dipendenti dallo stato e da altri enti pubblici e i dipendenti da imprese esercenti un servizio pubblico o di pubblica necessità che, in numero di tre o più, previo concerto, abbandonano il lavoro o lo prestano in modo da turbarne la continuità o la regolarità, sono puniti con la reclusione da uno a sei mesi, e con l'interdizione dai pubblici uffici per sei mesi”.

“Quando la sospensione del lavoro da parte dei datori di lavoro o l’abbandono o la irregolare prestazione del lavoro da parte dei lavoratori abbiano luogo allo scopo di coartare la volontà o di influire sulle decisioni di un corpo o collegio dello stato, delle provincie o dei comuni, ovvero di un pubblico ufficiale - aggiunge l’art. 22 - i capi, promotori e organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni, e con la interdizione perpetua dai pubblici uffici, e gli altri autori del fatto con la reclusione da uno a tre anni e con la interdizione temporanea dai pubblici uffici”.

Per quasi diciassette anni il termine "sciopero" sembra scomparire dalle cronache italiane, ma ricompare - potentemente e prepotentemente - nel marzo del 1943 e poi ancora, sempre di più, nei due anni successivi.

La Resistenza operaia

Tra il 5 e il 17 marzo 1943le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100.000 operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro intento politico e cioè la fine della guerra e il crollo del fascismo. Un’ondata che da Torino si estende alle principali fabbriche del Nord Italia.

La Resistenza la iniziano gli operai. E i lavoratori la concludono, occupando le fabbriche due anni dopo alla vigilia del 25 aprile 1945. Scioperando, nuovamente nel marzo del 1944. Il 2 giugno del 1946 in Italia si vota per il referendum istituzionale tra monarchia o repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente.

Il diritto costituzionale

L’Assemblea costituente si riunirà per la prima volta il 25 giugno 1946 e lavorerà fino al 31 gennaio 1948 (anche se le sue commissioni funzioneranno fino al mese di aprile) per un totale di 375 sedute pubbliche, delle quali 170 dedicate alla Costituzione e 210 ad altre materie.

Il 31 gennaio 1947 un Comitato di redazione composto di 18 membri presenterà all’Aula il progetto di Costituzione, diviso in parti, titoli e sezioni. Dal 4 marzo al 20 dicembre 1947 l’Aula discuterà il progetto e il 22 dicembre verrà approvato il testo definitivo.

La Costituzione repubblicana sarà promulgata il 27 dicembre 1947 ed entrerà in vigore il 1° gennaio 1948.

Il diritto di sciopero - sancirà l’art. 40 della Carta fondamentale - si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Perché lo sciopero è un diritto.  Perché lo sciopero è - quando occorre e quando è necessario - un dovere.

“Le libertà sindacali, che si riassumono nella piena libertà di riunione, di discussione, di manifestazione, di astensione dal lavoro ecc. - affermava Giuseppe Di Vittorio all’Assemblea - comportano il diritto di sciopero. Se si toglie a questi lavoratori il diritto di sciopero, quale altro mezzo veramente efficace rimane loro per far valere i propri diritti?”. 

“È attraverso lo sciopero - diceva il segretario generale della Cgil - che i lavoratori, poveri e deboli isolatamente, affermano la propria potenza e l’indispensabilità della loro funzione sociale”.

E allora buono sciopero a tutte e tutti noi, compagne e compagni.