Aggiungere la parola “merito” a “istruzione” nella nuova denominazione del ministero non è stata una boutade. Risponde all’esigenza del governo di lanciare messaggi identitari. Così Salvatore Cingari, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università per stranieri di Perugia. Cingari ha pubblicato recentemente per Futura Editrice un volume di grande interesse dal titolo secco e preciso: La meritocrazia che verrà presentato a Roma il 2 dicembre, alle ore 17, presso il centro culturale "Scena" in via degli Orti d'Alibert 1.

L'autore ricostruisce la storia di un concetto diventato negli anni avvelenato, un sorta di parola zelig che come altre – si pensi a riformismo – può essere piegata a usi e significati i più diversi. Tanto che tra i primissimi a utilizzarla fu nel 1958 Michael Young per descrivere, nel suo romanzo The rise of meritocracy, una vera e propria distopia: una società rigidamente gerarchizzata sulla base di questo supposto merito e che finiva per perpetuare caste di potenti e privilegiati non meno odiose di quelle delle società aristocratiche dei secoli passati. Ricostruire la storia di questo lemma, ci aiuta così a capire tutta una serie di fraintendimenti che scontiamo anche oggi.

Come entra il discorso del merito nella scuola?
Il fatto interessante è che questa problematica non nasce propriamente a destra. È infatti diventata il cavallo di battaglia di tutta una cultura neoliberale che circolava da tempo nei media mainstream e in quelli che un tempo avremmo chiamato i grandi giornali borghesi. C’è tutta una pubblicistica, penso a Scotto Di Luzio, Mastrocola, Ricolfi, che sostiene che la scuola e l’università si siano deteriorate per colpa di una aziendalizzazione che, voluta dall’Ue, avrebbe trovato facile terreno nel lassismo libertario della cultura di sinistra. Insomma: si confonde il progressismo politico con l’aziendalismo, compiendo in questo modo un vero e proprio depistaggio cognitivo. 

In che senso?
Nel senso che queste persone tralasciano il fatto che se è vero che l’aziendalismo è stato sbandierato anche da una certa cultura di sinistra (a cominciare dalla Terza Via di Blair), questo è accaduto proprio perché sono state abbandonate le tradizionali istanze popolari e di classe di quelle stesse forze. L’idea che è alla base del ministero dell’Istruzione e del merito sarebbe quella che bisogna difendere una scuola selettiva contro un supposto lassismo di sinistra. Solo che si “dimentica” che introdurre il merito senza pari opportunità, significa ratificare il privilegio dei pochi e fare proprio il gioco di quell’aziendalismo che si dice di voler criticare.

Valditara in alcune dichiarazioni, però, dice che il merito dovrebbe servire a ripristinare il famoso ascensore sociale…
E allora dovrebbe aggiungere un’altra parola: ministero del Merito e dell’uguaglianza. Insomma, andrebbe sottolineato che nella scuola si realizzano i talenti, ma si aiuta anche chi sta indietro. E che anche chi non eccelle, ha il diritto di acquisire saperi e capacità che lo aiutino a esprimere e realizzare la propria personalità, come detto benissimo nell’articolo 3 della Costituzione.

Nel 1946 a Oxford era nata una Associazione per gli individui con un alto tasso di intelligenza. Oggi fa sorridere, però è pur vero che i talenti individuali contano e vanno valorizzati...
Certamente. E infatti bisogna innanzitutto distinguere il termine “merito” da “meritocrazia” che indica il potere del merito. Si ha una stortura quando le capacità diventano motivo di acquisizione di poteri, privilegi e diritti esclusivi. Quando la parola meritocrazia è nata in Inghilterra, con Alan Fox prima e Michael Young poi, indicava proprio questo e perciò assumeva un significato negativo che in Europa è rimasto tale per tutto il millennio. Bourdieu, ad esempio, scriveva che la scuola è luogo del privilegio, se valuta con i parametri del merito persone che vi entrano con una storia diseguale alle spalle. In Italia il Dizionario di politica Bobbio-Matteucci del ‘76 dava al termine lo stesso valore negativo: e non stiamo parlando di autori marxisti e nel caso di Matteucci neppure di sinistra.

Dove e quando allora “meritocrazia” assume un’accezione positiva?
Negli Usa, dove già negli anni 60 si stavano determinando condizioni legate alla società post industriale che in Europa e in Italia si sarebbero consolidate 20 anni dopo. In un saggio di Daniel Bell del ‘72 la meritocrazia è vista in positivo come strumento per mettere in discussione le politiche di redistribuzione portate avanti da Lyndon Johnson. Questa idea entra successivamente in Europa con la Terza Via di Blair e poi anche in Italia con il centrosinistra che ad essa si è ispirato, compreso poi il Pd. Il motivo è lo stesso: va in crisi l’idea della redistribuzione.

Nel 2008 anche globalizzazione e neoliberismo vanno in crisi… Che succede alla meritocrazia? 
Il grande centro neoliberale – che accomuna centrodestra e centrosinistra – inizia a entrare in una profonda difficoltà politica: basti pensare ai partiti socialisti in Francia e Grecia che quasi scompaiono. I partiti di destra vanno in doppia cifra e all’orizzonte si staglia la brexit. L’Europa abbandona il paradigma austeritario, che però non porta ad abbracciarne uno redistributivo e “neowelfarista”. La meritocrazia viene dunque utilizzata dal neopopulismo come possibile ribellione contro le elités neoliberiste legittimate non per il proprio merito ma per i privilegi acquisiti. Ma siamo sempre all’interno di un paradigma non redistributivo ma di destra e fortemente gerarchico.

In Italia pensiamo a Fratelli d’Italia…
Già da un po’ di tempo Fratelli d’Italia batte sul tasto del merito che è diventato una forte bandiera di consenso perché rimanda a un orizzonte di onestà e di riscatto. L’idea, insomma, che l’underdog se le regole e le sue capacità vengono rispettate, se non vincono corruzione e malaffare, può emergere.

Perché sarebbe una posizione di destra, questa?
Perché non punta a creare una società più giusta che rimuova i fattori sociali per cui i più deboli rimangono indietro, ma una in cui i pochi underdog, se sono forti, emergono. C’è molto darwinismo e nietzschianesimo volgarizzato in questa visione selettiva.

Al netto di queste considerazioni quali sono secondo lei i talenti e i meriti da valorizzare, senza in ogni caso farli diventare strumenti per l’acquisizione di privilegi?
Questo è un punto centrale. In una pagina molto bella Young scrive più o meno: “Perché un uomo che coltiva le rose deve valere meno di un grande manager?” Oggi potremmo dire: perché un infermiere che si è prestato da eroe durante la pandemia guadagna un’infinità di volte meno di Elon Musk, o di un top manager o di chi vive soltanto giocando in borsa o con rendite immobiliari? E perché per questi ultimi due non vale l’appellativo di "furbetti" attribuito ai percettori del reddito di cittadinanza? C’è così tanta differenza in quello che offrono alla società? Trentin, per altro, sapeva bene che sul mercato del lavoro enfatizzare il merito significa dare al padrone un parametro che poi sostanzialmente gli permette di fare come gli pare, senza limiti e condizioni.

E quindi? Cosa andrebbe "premiato"?
Per me i talenti che vanno riconosciuti anche economicamente (ma non nelle proporzioni attuali, per cui un manager guadagna mille volte quanto un normale lavoratore) sono quelli messi a servizio della società. Vorrei ricordare che nei secoli passati le elités avevano privilegi enormi, ma anche molti doveri verso la collettività. Nella società feudale, ad esempio, i nobili dovevano proteggere i contadini. Oggi queste responsabilità collettive non esistono più: i ricchissimi vivono perlopiù in un loro mondo separato e ovattato, quasi sempre slegato dalla società che li circonda e da cui però hanno tratto quei privilegi che garantiscono loro un posizione dominante.