Fra i principali artefici dell’intesa unitaria, strenuo sostenitore dell’unità sindacale e ideatore del Patto federativo dopo che le speranze dell’unità organica erano state momentaneamente accantonate in seguito alla vittoria del centro-destra nelle elezioni politiche anticipate del maggio 1972, la Segreteria di Luciano Lama è la più lunga nella storia ultracentenaria della Cgil.

Arrivato al vertice della Confederazione poche settimane dopo la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Lama vive con la massima fermezza possibile - dalla bomba di Piazza della Loggia a Brescia a quella alla stazione di Bologna, dall’omicidio di Moro a quello di Guido Rossa - la stagione dello stragismo prima e del brigatismo dopo, coniugando le forme più classiche della mobilitazione sindacale con i linguaggi della politica nella società di massa, attraverso una presenza efficace tanto nelle lotte operaie quanto nella comunicazione politica. 

Amava definirsi “un riformista unitario”. E l’unità, come valore in sé, è sempre stata la sua bussola, da quando, nel novembre 1944 diventa segretario della Camera del lavoro di Forlì, per approdare tre anni dopo alla segreteria confederale, chiamato da Giuseppe Di Vittorio in persona (“Non l’ho mai saputo il perché - dirà Lama anni dopo in una intervista alla TV della Svizzera italiana - l’ho chiesto a Togliatti, a Luigi Longo… l’ho chiesto a Di Vittorio. E ognuno di questi mi ha risposto così: 'Ma che ti interessa di saperlo… l’importante è che lo sei diventato!'”).

La parabola del ‘gigante buono’ (la definizione è di Aris Accornero; “Il più bello dei marxisti famosi”, lo promuoverà Epoca; “Un uomo che parlava al paese” nelle parole di Giorgio Napolitano il giorno seguente alla sua morte) alla guida della Cgil è racchiusa tra due estremi opposti: diventa segretario generale della Confederazione nel 1970, a poche settimane dall’autunno caldo, cioè dal punto più alto raggiunto dal sindacato in termini di potere nella sua storia, mentre al momento della sua uscita, avvenuta nel 1986, sei anni dopo la terribile sconfitta alla Fiat di Torino con la “marcia dei quarantamila”, dopo la rottura della Federazione unitaria nel 1984 e la sconfitta nel referendum sulla scala mobile dell’anno successivo, il sindacato -soprattutto la Cgil - tocca uno dei punti più bassi, di maggiore debolezza nel suo percorso.

A lui l’Italia deve molto: ha saputo unire e tenere insieme nei momenti difficili, senza strafare nei momenti delle conquiste, senza arretrare nei momenti delle sconfitte. 

“Venerdì scorso - annotava sul suo diario Bruno Trentin - è morto Luciano Lama. E da quel momento (…) mi sono ritrovato immerso nella tristezza e nei ricordi (…) Molte cose ci hanno diviso durante la sua direzione della Cgil e dopo; e certamente le nostre ‘ansie’ erano diverse. Ma egli resta il dirigente migliore che la Cgil poteva esprimere nel lungo periodo della sua reggenza e ha segnato una parte importante della nostra vita. Certamente della mia”.

“Intravidi per la prima volta Luciano una sera di febbraio del 1948 nella penombra di uno scompartimento del treno che da Genova ci riportava a Roma e a Napoli di ritorno sia lui che io da una manifestazione nazionale di giovani del Fronte popolare - scriveva su l’Unità Giorgio Napolitano - Era già vice segretario della Cgil. Giovane e straordinariamente maturo incuteva rispetto. Scambiammo le prime battute di un dialogo che sarebbe continuato tra noi per decenni”.

“La Cgil tutta - riporta il giornale - sfila davanti alla salma di colui che ne fu un grande leader. (…) Pierre Carniti è un po’ ricurvo, come sotto il peso di un grande dolore e dice: Perdo non solo il compagno di tante battaglie, ma soprattutto un amico fraterno”. 

“Grazie, scrivono alcuni. Oppure semplicemente 'Ciao Luciano'. Le donne depongono una rosa ai piedi della bara e si ritirano. Persino quelli che non riescono a trattenere le lacrime, cercando di non esibirle, si rifugiano in un angolo. 'È giusto cosi, gli avrebbe fatto piacere', dicono i suoi collaboratori più stretti. I sindacalisti sono tanti e si riconoscono dal quadratino rosso sul risvolto della giacca, Ma anche da qualcos’altro, di noto e familiare quasi come quella pipa che ora accompagna lui, il leader, nell'ultimo ritratto pubblico prima dei funerali”.

“Nella persona di Lama - dirà Vittorio Foa - nel suo tratto così forte e gentile, nel rigore e nella serenità delle sue convinzioni sempre assistite dalla disponibilità ad ascoltare e rispettare le convinzioni degli altri, si sentiva la Cgil, la realtà che egli ha diretto con tanta saggezza”.

“Luciano Lama - scriveva Bruno Ugolini - aveva una grande qualità: sapeva abbandonare il cosiddetto “sindacalese”, un linguaggio spesso tecnico o burocratico. I suoi discorsi, i suoi interventi non volevano farsi capire solo dai gruppi dirigenti sindacali, o dai dirigenti di partiti e governi. Parlava a tutti, al di là di ogni confine ideologico, parlava al Paese”.
 
“Abbiamo sempre cercato di parlare ai lavoratori come a degli uomini - diceva del resto il segretario salutando la sua Cgil - di parlare al loro cervello e al loro cuore, alla loro coscienza. In questo modo il sindacato è diventato scuola di giustizia, ma anche di democrazia, di libertà; ha contribuito a elevare le virtù civili dei lavoratori e del popolo”.

“Cosa devo a Di Vittorio? - affermava nel novembre 1981 in una intervista a l’Espresso - Prima di tutto i ferri di un mestiere non facile. Il coraggio di affrontare la realtà, anche quella che non ti piace. Lo sforzo costante di non appagarsi della superficie, ma di vedere quello che c’è sotto le cose. Infine, l’abitudine a pensarci su, a non essere frettoloso nei giudizi, ma poi ad avere il coraggio di esprimerli anche controcorrente”.
 

Compagni, non abbiate paura delle novità, non rifiutate la realtà perché vi presenta incognite nuove e non corrisponde a schemi tradizionali, comodi ma ingannevoli, non rinunciate alle vostre idee almeno finché non ne riconoscete altre migliori! E in quel momento ditelo! Perché un dirigente sindacale è un uomo come gli altri e se in quel momento gli altri lo riconosceranno capiranno anche gli errori. So bene che questo metodo comporta anche il rischio di pagare dei prezzi, ma non c’è prezzo più alto che la verità: ma in una grande organizzazione, pluralistica e complessa nella ideologia e nella condizione culturale e sociale dei suoi stessi aderenti, il libero confronto, il coraggio delle proprie posizioni sono lievito indispensabile, un contributo al miglioramento delle politiche, alla ricerca collettiva della strada giusta. (…) Grazie per avermi offerto una vita piena - aggiungeva - una causa grande, una ragione giusta di impegno e di lotta. (…) Grazie di cuore, amici miei. Voi sapete che ci unisce e ci unirà sempre un rapporto di fiducia, un amore profondo che nessuna vicenda umana potrà spezzare. Perché ci sono delle radici che non si possono sradicare. Voi, per me, siete quella radice.