Il XVIII rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione nel nostro Paese, presentato il 28 aprile scorso a Roma, esamina a fondo e descrive in maniera compiuta la situazione delle nostre carceri, fotografando il sistema in tutta la sua complessità. Fa emergere con chiarezza quei dati, assolutamente poco confortanti e già noti, su cui si era posta l’attenzione in maniera ancora più particolare in questi ultimi mesi a seguito della pandemia.

Uno su tutti, il sovraffollamento: il seppur parziale ridimensionamento ottenuto grazie a una serie, per quanto limitata, di provvedimenti, chiesti e sostenuti anche dalla nostra organizzazione, dimostra che con poche misure, di semplice applicazione, alcuni risultati si possono ottenere. Invece si è scelto di non procedere con quei provvedimenti, di dar loro una scadenza, e così il tasso ufficiale medio è tornato ad aumentare, raggiungendo percentuali davvero elevate in alcune regioni: basti pensare al 134,5 per cento della Puglia e al 129,9 per cento della Lombardia. Tasso ufficiale medio, fra l’altro, perché si fa riferimento alla capienza effettiva, e non si tiene conto degli spazi inagibili o in ristrutturazione.

Se a questo si aggiunge che un quarto degli istituti hanno celle che non garantiscono il minimo previsto di tre metri quadri calpestabili a persona, che molte sezioni sono sprovviste di servizi igienici adeguati, che in diversi istituti il servizio igienico (spesso solo un cesso alla turca) non è separato in nessun modo dal resto della cella, che manca l’acqua calda nelle docce, ci rendiamo davvero conto di quanto profonda sia la distanza rispetto alla garanzia di condizioni di vita dignitose, raccomandata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Di quanto sia ancora distante il rispetto della Costituzione, che afferma esplicitamente che la pena deve avere sempre finalità rieducative, mai afflittive, che non può consistere in trattamenti contrari alla dignità umana o degradanti.

Dati altrettanto importanti e preoccupanti sono quelli che emergono rispetto al lavoro: le persone ristrette che lavorano per l’amministrazione penitenziaria sono meno di un terzo, lavorano per poche ore al giorno, per pochi giorni al mese, e permangono problemi importanti legati al riconoscimento della prestazione, dei diritti e delle tutele. Basti pensare alla necessità di procedere con vertenze per veder accolto il diritto alla Naspi. In più, le persone che lavorano per aziende esterne sono un’esigua minoranza, soltanto 2.305, nonostante l’esistenza di una normativa (la legge Smuraglia) che dovrebbe in qualche modo favorire l’assunzione di persone ristrette da parte di aziende esterne.

Abbiamo un grande cammino ancora da fare, per permettere che il lavoro in carcere assuma il valore che la Costituzione gli attribuisce. Come ormai ampiamente dimostrato dalla realtà dei fatti, è fondamentale strumento di rieducazione e reinserimento sociale al termine della pena, e contribuisce in maniera sostanziale all’abbattimento delle recidive. La Costituzione stessa non fa differenza fra lavoratori ristretti e non: tutela il lavoro in quanto tale, in tutte le sue forme. Il lavoro è un diritto/dovere che l’amministrazione penitenziaria “è tenuta a” garantire, non è un obbligo, né un’opportunità, tantomeno un "premio", e in quanto tale deve essere garantito, riconosciuto e tutelato.

Altri temi che riguardano i diritti delle persone ristrette che emergono dal rapporto, sui quali la Cgil è intervenuta anche con proprie iniziative nel corso dello scorso anno, sono quelli legati all’affettività e alla genitorialità. La dimensione affettiva è parte integrante del rispetto della dignità della persona, i legami sono il parametro su cui modellare il processo d'individualizzazione del trattamento. Come sostenuto anche da autorevoli giuristi, il diritto alla sessualità è da riconoscersi come posizione soggettiva giuridicamente riconosciuta, ma ancora non è prevista la possibilità per le persone ristrette di vivere appieno la propria affettività, anche prevedendo spazi dove potersi incontrare in maniera intima e riservata. Emergono inoltre, con chiarezza, i problemi legati alla gestione e collocazione delle persone trans*, o con identità di genere non binaria.

Sono ancora 19 i bambini detenuti con le proprie madri: la Cgil, anche con una propria iniziativa pubblica, ha sostenuto la necessità che i bambini escano dal carcere, e che le case famiglia protette siano la risposta corretta per permetterne l’uscita mantenendo il rapporto con la madre. In questi giorni è ripreso il dibattito parlamentare su proposte di legge in materia, ci auguriamo che possano dare risposte adeguate entro la fine della legislatura.

L’incidenza dei suicidi in carcere è superiore rispetto all’esterno (8,7 su mille a fronte di 0,65) e frequenti sono gli episodi di autolesionismo. Non ce la possiamo cavare, vista la situazione descritta dal rapporto, giustificandoli solo e soltanto con la “fragilità” delle persone che attuano certi comportamenti.

Quanto emerge dal rapporto ci conferma l’assoluta necessità di un quotidiano impegno per il pieno riconoscimento dei diritti che le persone ristrette mantengono, e che non possono venire limitati dalla condizione di reclusione. Come ha ripetutamente sostenuto il Garante nazionale Mauro Palma, si è in carcere perché si è puniti, non per essere puniti. E l’unica “punizione” ammessa è la restrizione in carcere, per i tempi e nei modi previsti dall’ordinamento, da pensare comunque davvero finalmente come extrema ratio, laddove non siano possibili altre misure, alternative.

Non possiamo più dirigere lo sguardo altrove di fronte alle violazioni dei diritti delle persone in carcere, che anche questo rapporto illustra e conferma. Abbiamo un compito importante da svolgere tutti insieme: come sindacato generale confederale, che rappresenta i diritti di tutte le persone che vivono il carcere, perché ristrette o perché ci lavorano, intendiamo continuare ad assumerlo appieno, con tutte le realtà impegnate da anni per questo come Antigone, con le quali la nostra interlocuzione e collaborazione sono attive da tempo.

Denise Amerini è responsabile Dipendenze e carcere dell’area Welfare Cgil