Il 28 ottobre del 1922, la marcia su Roma conclude la parabola dello Stato liberale e apre il ventennio fascista. Il Paese è in quegli anni attraversato da una profonda crisi, dalla quale prenderà forma il progetto totalitario fascista che servirà da modello a tutti i nazionalismi integrali che si moltiplicheranno nell’Europa degli anni Venti e Trenta.

L’affermazione mussoliniana è resa possibile soltanto grazie alla contemporanea presenza e alla radicalizzazione cumulativa di diverse crisi tra loro intrecciate: politica e istituzionale, economica e sociale.

Il fascismo si afferma come elemento di stabilizzazione in uno scenario fortemente destabilizzato e che esso stesso contribuisce in misura massima a destabilizzare. Esso riesce in quella fase a interpretare e sfruttare le tante paure e le altrettante ambizioni delle classi dirigenti e del ceto medio.

Il mezzo attraverso il quale il fascismo rende concreto il proprio progetto è la violenza di carattere militare: trasposta dai fronti della prima guerra mondiale alla lotta per le strade e spalleggiata dalle autorità pubbliche, la violenza, conferisce al fascismo una forza che un movimento fortemente minoritario non avrebbe potuto avere altrimenti.

Di fronte al fascismo la sinistra politica e sindacale si scopre debole, dilaniata dalle divisioni interne. Il movimento socialista, protagonista del biennio rosso, si consuma in una partita inutile tra un estremismo velleitario e un riformismo troppo timido e impotente che riflette un’immagine di profonda incomprensione del pericolo fascista e della saldatura di un blocco di potere fortemente deciso ad annullare tutte le conquiste di emancipazione del mondo del lavoro del 1919-1920.

Nel mondo socialista mancano coerenza e unità d'intenti, ma, più al fondo, manca la consapevolezza che l’obiettivo del fascismo non sia tanto una tradizionale restaurazione, ma una destrutturazione profonda dello Stato liberale in nome di un progetto totalitario fondato sulla sconfitta verticale delle organizzazioni di rappresentanza del mondo del lavoro.

Malgrado la violenza squadrista prenda di mira principalmente le sue strutture territoriali, il sindacato sceglie però di restare tenacemente sul terreno della legalità, contando sull’intervento di quei poteri pubblici demandati alla difesa dell’ordine sociale in ragione di una fedeltà profonda a una cultura lontana dall’immaginare una rottura violenta dello Stato liberale.

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L’antifascismo storico, nato nei mesi di quella violenta contrapposizione, si legherà progressivamente all’antifascismo operaio e bracciantile nato sui luoghi di lavoro, nel confronto quotidiano con la controparte padronale così identificata con il fascismo al quale aveva demandato la difesa dei propri interessi. Il contributo fondamentale che verrà dato dai lavoratori alla Resistenza, contribuirà a imprimere un segno indelebile al rapporto Democrazia – Costituzione – Lavoro, permettendo la nascita della Repubblica democratica fondata sul lavoro. La Costituzione da un lato eleva il lavoro a valore di riferimento della nuova koinè democratica, dall’altro è sentita come il frutto più maturo della lotta di emancipazione. Il mondo del lavoro emerge come soggetto contraente del patto costituzionale, e lo Stato unitario, per la prima volta, diventa anche lo Stato dei lavoratori.

Giuseppe Di Vittorio, che offre il suo contributo alla nascita della democrazia repubblicana nei lavori della Terza sottocommissione all’Assemblea costituente, coglie l’irreversibilità del diritto del lavoro, assunto centrale del patto costituzionale e il suo carattere di cesura storica, perché la storia politica italiana era invece prima basata sulla reversibilità dei diritti sociali o dei diritti del lavoro sostituiti dagli atti amministrativi, prefettizi, giudiziari, ecc. cioè dalle repressioni, dalle illibertà, dagli scioglimenti forzati, dagli eccidi, dall’ingiustizia economica e sociale. Per questa ragione, la mancata applicazione della nostra Costituzione indurrà la Cgil a impegnarsi direttamente per la sua difesa e attuazione anche nei luoghi di lavoro, da sempre soggetti all’autoritarismo imprenditoriale. Lo scorso 9 ottobre, l’assalto fascista alla sede della Cgil, un episodio gravissimo e insopportabile, ha riproposto antichi timori. I tempi sono molto diversi e fortunatamente oggi il fascismo storico non è più all’ordine del giorno: ma questo non significa non riconoscere una rinnovata violenza e diffusione del discorso neofascista e una persistenza di quello che Umberto Eco chiamava Ur-fascismo. Quest’ultimo in parte si collega alla più ampia crisi di consenso di una costruzione europea indebolita da nuovi nazionalismi, ma rimanda anche all’affievolirsi dell’identità antifascista posta alla base della Repubblica che ci interroga sull’importanza che l’antifascismo rimanga un valore pienamente condiviso e praticato. 

Il paradigma antifascista continua a essere declinato dal movimento sindacale sia valorizzando le tutele e le garanzie democratiche, sia operando nel senso di una riforma democratica del modello sociale ed economico. Fascismo e antifascismo non sono per la Cgil e il movimento sindacale una mera espressione formale e di circostanza, relegata esclusivamente alla memorialistica e alla convegnistica. In virtù della consapevolezza della natura sempre reversibile della democrazia, frutto ed espressione sia di una comune condivisione di valori e di regole, ma soprattutto di un equilibrio dinamico e progressivo tra gruppi e aggregazioni sociali, l’antifascismo assume al contrario la valenza di vero e proprio punto di riferimento, in positivo, dell’azione sindacale quotidiana: sintesi avanzata del proprio progetto di emancipazione e di democrazia sociale (pluralismo, diritti, cittadinanza sociale); cosi come il fascismo, specularmente, diviene summa degli errori strategici da non ripetere (settarismo, divisione, sottovalutazione della democrazia e delle libertà formali), ecco il perché ancora una volta dell’attacco alle sedi sindacali e il motivo e le ragioni solide e attuali, dunque, per tornare a riflettere su quel delicato e tortuoso tornante della nostra storia recente.

Il lavoro, allora come oggi, è elemento fondamentale della libertà della persona, per questo ha sempre avversato guerre e totalitarismi, sulla base del suo valore sociale e del sentire collettivo che lo connota. La pace e la democrazia si legano in modo indissolubile al concreto concetto di progresso sociale, politico e umano di cui il lavoro è elemento essenziale. Per questo, a cento anni dalla drammatica nascita del regime fascista, la rilettura e le indicazioni della nostra storia sono così importanti per l’iniziativa politica e sociale.