Al centro della copertina del nuovo libro di Fabrizio Barca, scritto a quattro mani con Fulvio Lorefice (Disuguaglianze, conflitto sviluppo. La pandemia, la sinistra e il partito che non c'è, Donzelli 2021), si vede il disegno di una bilancia. Sul piatto più in alto ci sono le persone, donne, uomini e bambini. Sull'altro piatto, quello che pesa di più, c'è un uomo in giacca e cravatta con in mano un sigaro dal quale esce una nuvola di fumo che forma una @. Chi è e cosa rappresenta questo elegante fumatore? 

Barca Rappresenta il capitalismo di oggi, quello delle grandi corporation che concentrano la conoscenza, governano le piattaforme digitali e scrivono gli algoritmi. Una volta quel signore avrebbe avuto una tuba in testa, perché così si rappresentavano i capitalisti del primo Novecento, padroni di finanza e industria, e poi delle “sette sorelle” che controllavano il petrolio. Oggi invece è proprio quella nuvola di fumo, che rappresenta il controllo sui dati, sulla conoscenza, sugli algoritmi a determinare lo squilibrio della bilancia.

Lorefice Il cambiamento tecnologico non è mai neutro in termini sociali. Tutto dipende sempre dai rapporti di forza esistenti: per i più può essere tanto uno straordinario strumento di emancipazione, quanto un potente strumento di oppressione. Bisogna dunque porsi il problema di cosa quel cambiamento può determinare nella vita delle persone. Molteplici tecnologie, già oggi disponibili, destinate a fini, sociali potrebbero schiudere spazi di libertà. Quello della neutralità della tecnica è dunque un mito, che rimanda al convincimento neoliberale che vi sia un’unica ricetta valida universalmente. 

Nel libro parlate di una “torsione parassitaria del capitalismo” e di una sua vittoria, prima di tutto culturale, che ha portato a “normalizzare” le disuguaglianze, come se queste fossero un prezzo inevitabile da pagare per il progresso.

Barca Il capitalismo ha una propensione naturale alla rendita, che nelle sue fasi migliori però è stata mitigata dall'incontro con la democrazia, attraverso le regole, la concorrenza e la necessità di tenere conto degli interessi di tutti i soggetti. C'è un passaggio cruciale che ha incrinato questo equilibrio: l'accordo Trips del 1995 sui diritti di proprietà intellettuale, che rappresenta il sigillo della torsione patrimonialista del capitalismo. Nel momento in cui il capitale immateriale diventa fondamentale nella storia dell'umanità (ben più di quello materiale), l'accordo Trips sancisce la superiorità dell'interesse alla proprietà intellettuale rispetto al diritto all'accesso alla conoscenza. Trenta anni fa il mondo non avrebbe sopportato che una dose di vaccino, che costa un euro, venga venduta a 16. Oggi lo sopporta. Questo è il segnale di un decadimento complessivo e di una fase parossistica, inegualitaria e quindi insostenibile del capitalismo. Ma non è colpa del destino, dietro questo stato di cose ci sono scelte politiche. E quindi con scelte diverse – e noi del Forum disuguaglianze e diversità ne abbiamo indicate molte - si potrebbe cambiare direzione. 

Nel vostro libro denunciate proprio questa mancanza di una politica alternativa. La mancanza di una sinistra che abbia ancora l'ambizione di “cambiare il mondo”.

Lorefice È un dato di fatto incontrovertibile. Nella politica italiana in particolare, vi è questa assunzione della perennità dello stato di cose presenti. E questa prospettiva mentale, intimamente conservatrice, è stata interiorizzata fino a divenire un dato quasi antropologico, direi. Per la stragrande maggioranza dei dirigenti politici di sinistra è difficile anche solo immaginare qualcosa di meglio dell’esistente. Da questa comfort zone essi non sono così nemmeno in grado di cogliere i cambiamenti epocali che si verificano attorno a loro, anche a quelle latitudini che hanno spesso idealizzato, in modo non di rado infantile. Mi riferisco a quanto avviene a livello domestico negli Stati Uniti, dove ad una disamina critica del quarantennio alle spalle corrisponde una prassi diversa (o che tale si vorrebbe). Si pensi, per fare un esempio, al giro di boa, anche in quell’ordine sociale, rappresentato dalla vertenza dei controllori di volo con Reagan e di converso al valore che l’amministrazione Biden attribuisce al lavoro e al sindacato. In Italia invece, credo di poter dire, non vi é una disamina critica del quarantennio alle spalle né tanto meno una prassi diversa, che si discosti cioè dai mantra neoliberali. 

L'altra faccia della medaglia di questo “ritrarsi” della politica è l'avanzata della tecnica, rappresentata egregiamente nel nostro paese dall'attuale governo Draghi. Nel libro scrivete che la politica “si nasconde dietro i tecnici”: cosa vuol dire?

Barca La depoliticizzazione dei processi decisionali (che ovviamente restano segnati da scelte politiche di valore, ma perdono in democraticità e saperi) è un altro dei tratti salienti del neoliberismo. Esso è convinto (ed è diventato egemone su questo) del fatto che l'enorme complessità della realtà odierna non sia governabile dalla politica e che l'unico soggetto in grado di farlo siano appunto i tecnici, le grandi corporation che detengono la conoscenza. In Italia – non negli altri paesi - questo processo è aggravato dal suicidio dei partiti, avvenuto negli anni 90. Così l'affidamento ai tecnici di un ruolo che esorbita dalla loro naturale funzione, quella di indicare le compatibilità, raggiunge nel nostro paese forme particolarmente forti. Ne è esempio estremo il governo Draghi che - a differenza di esperienze precedenti, come il governo Monti, di cui ho fatto parte - non si limita ad attuare un programma politico deciso dai partiti, ma stabilisce di sua iniziativa gli obiettivi e strumenti del Pnrr. Una strategia che, stante l'enorme mole di risorse disponibile, poteva (potrebbe?) cambiare la storia del paese. Credo che quella attuale sia la fase estrema del ritiro della politica. 

In questo vuoto di politica che descrivete molto bene deve muoversi anche il sindacato, che appare in questo momento come l'unico soggetto di massa in grado di sfilarsi da questa sorta di “unanimismo” e produrre conflitto. Il recente sciopero generale contro la manovra del governo Draghi ne è un esempio? 

Lorefice Prima di tutto va riconosciuta l'anomalia della condizione vissuta dal sindacato in Italia, proprio a causa del ruolo di supplenza della politica che è stato costretto a svolgere per le ragioni che abbiamo detto. In questa anomalia è lecito dibattere sulla capacità di rappresentanza che il sindacato italiano è in grado di esprimere oggi, a fronte dell'opera scientifica di disintermediazione portata avanti in questi anni e della frammentazione estrema del mondo del lavoro. Di certo, nonostante il deteriorarsi dei rapporti di forza, c'è ancora una capacità di insediamento e mobilitazione importante, di cui bisogna tenere conto e di cui lo stesso sindacato talvolta non sembra essere consapevole. Credo che lo sciopero generale di dicembre, in una fase nella quale si assumono decisioni destinate ad incidere sul futuro in profondità, sia stata logica conseguenza di quel disallineamento tra sinistra e realtà materiale dei più, di cui si è detto in precedenza. 

Barca Concordo con l'analisi di Fulvio, ma aggiungo che in un'epoca in cui si è provato a disconoscere, anche con riforme pesanti, il ruolo del sindacato, equiparandolo alla rappresentanza delle imprese, e quindi tornando ad una lettura corporativa dell'organizzazione del lavoro, il sindacato nel difendersi ha finito spesso anche per arroccarsi in una posizione di conservazione dell'esistente, non ritenendo di avere i rapporti di forza necessari ad andare oltre la difesa della postazione. È forse stato vero, in alcuni momenti, ma ora siamo in una fase della storia in cui tenere le postazioni vuol dire perdere. Per questo ritengo importante il percorso che, in particolare la Cgil, ha intrapreso negli ultimi mesi con le organizzazioni della cittadinanza, tra cui il ForumDD, accettando almeno di discutere questioni di “rottura”, come la partecipazione strategica del lavoro all'interno delle imprese, attraverso quelli che noi del Forum chiamiamo “Consigli del lavoro e della cittadinanza”. Di certo, per concludere, il sindacato in Italia ha retto e questo è un grande merito. Adesso però è il momento di offendere, di passare dalla difesa all'attacco. 

Nell'ultima parte del libro Lorefice pone a Barca una domanda “pesante” con cui è naturale chiudere questa intervista: cosa vuol dire oggi essere di sinistra? A quali princìpi potrebbe ispirarsi quel soggetto politico che attualmente manca per un progetto emancipativo progressista?  

Barca È molto importante, nonostante tutto, rischiare di rispondere a questa domanda, perché altrimenti si lascia il terreno ad altre letture. Ho appena finito di leggere il libro Liberalismo inclusivo di Michele Salvati e Norberto Dilmore nel quale, con la consueta finezza, viene data della sinistra una lettura risolutamente “difensiva”, in cui il conflitto è riconosciuto ma va “addomesticato” (sic) e manca il riconoscimento dello squilibrio “sistemico” che produce subalternità di classe, genere, ambiente e razza, e della loro natura reversibile. Non basta enunciare che l’obiettivo della sinistra è perseguire la “giustizia sociale”, definita - e qui ci siamo - da loro come “l'effettiva possibilità di attuazione dei propri progetti di vita” (ma dovremmo aggiungere “senza intaccare la stessa libertà di chi verrà dopo di noi”: giustizia sociale e ambientale, insomma). Occorre anche esprimere consapevolezza delle trasformazioni radicali necessarie per raggiungere davvero quell'obiettivo. Con Fulvio ho provato a indicare le “5 zampe” su cui dovrebbe poggiare, a mio parere, il tavolo della sinistra che non c'è. La prima è un'idea delle relazioni umane che sia volta a valorizzare la reciprocità e la fratellanza/sorellanza, una sorta, se vogliamo, di nuovo internazionalismo. La seconda è appunto il sistematico impegno a ribaltare le quattro subalternità che dicevo. La terza è il contrasto della concentrazione del controllo sulla ricchezza e sulla conoscenza, garantendo condizioni di concorrenza ed effettivo accesso al mercato. La quarta: capire che, tanto all'interno del mondo del lavoro, quanto della politica e dell'organizzazione sociale, le decisioni devono essere il frutto di un confronto acceso e - come argomenta Amartya Sen - informato, ragionevole e aperto (altro che “addomesticare” il conflitto). E da ultimo: considerare il capitalismo per quello che è, un modo di produzione storicamente determinato, la cui flessibilità va usata per continuamente promuovere e sperimentare forme non capitalistiche di produzione. Sono princìpi che informano l'agire e il pensare di centinaia di migliaia, di milioni, di persone, anche solo nel nostro paese. Indefesso deve essere il nostro impegno a diffonderli, affinché si esca dal torpore che la pandemia non pare avere dissipato.