Alle 16 e 37 di venerdì 12 dicembre 1969 un ordigno esplode nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano: muoiono 17 persone, un centinaio saranno i feriti. Un’altra bomba, fortunatamente rimasta inesplosa, viene rinvenuta, sempre nel capoluogo lombardo, nella sede della Banca Commerciale Italiana. Ancora una manciata di minuti e le esplosioni non risparmiano la capitale. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30 ne avvengono altre tre: una all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio, altre due sull’Altare della patria di Piazza Venezia.

Inizia la strategia della tensioneAlla Camera dei deputati la seduta in corso viene interrotta e il presidente Sandro Pertini prende immediatamente posizione contro l’attentato affermando: “Onorevoli colleghi! Un vento di follia criminale si sta abbattendo sul nostro Paese e pare abbia quale obiettivo lo sconvolgimento della vita pacifica della nazione e lo scardinamento degli istituti democratici. I responsabili consumano i loro misfatti cinicamente disprezzando le vite umane. Noi, onorevoli colleghi, al di sopra di ogni divisione politica, con tutto l’animo nostro colmo di sdegno, di angoscia e di preoccupazione, condanniamo questi crimini, augurandoci che i colpevoli siano al più presto individuati e severamente puniti”.

Dal canto suo, la direzione del Pci invita “tutte le organizzazioni e i militanti comunisti alla vigilanza e alla iniziativa politica unitaria”. È il più grave fatto di sangue dal secondo conflitto mondiale. La città e il paese sono sgomenti, scossi, sbalorditi, frastornati per l’atrocità dell’avvenimento e il giorno dei funerali (la cerimonia verrà trasmessa dalla Rai, in rappresentanza dello Stato partecipano numerose personalità e il presidente del Consiglio Rumor) Cgil, Cisl e Uil decidono di proclamare lo sciopero generale. 

“La piazza, quella mattina, era color del piombo fuso - scriverà Corrado Stajano sul Corriere della Sera - la copriva una cappa di nebbia, rotta soltanto dalla fioca luce dei lampioni che rischiaravano un poco la marea di donne e di uomini sgomenti di dolore. Dalle fabbriche di Sesto San Giovanni arrivarono a migliaia le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Magneti Marelli, della Falck che fecero da servizio d’ordine. La borghesia consapevole e la classe operaia formarono allora, con la serietà dei momenti gravi, un corpo unico nella città affratellata”.

“La nostra presenza ai funerali - dirà anni dopo Carlo Ghezzi - fu decisiva: la dimostrazione, confermata poi negli anni del terrorismo, che eravamo una grande forza nazionale, che la lotta per i diritti era una sola cosa (oggi come ieri!, ndr) con la difesa della democrazia”.

A più di cinquanta anni di distanza l’eccidio resta - ancora oggi - senza colpevoli anche se dalle inchieste giudiziarie emergono con chiarezza le responsabilità dell’estrema destra neofascista.

“Non raggiungere la verità giudiziaria è una sconfitta dello Stato - affermava Licia Pinelli - È lo Stato che ha perso appunto perché non ha saputo colpire chi ha sbagliato. Perché in un modo o nell’altro, voglio dire direttamente o indirettamente, Pino è stato ucciso.  (…) Non è una questione di vincere o di perdere: semplicemente uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste”.  Uno Stato al quale non smetteremo mai di domandare chi è Stato. Perché, ancora una volta, qualcuno è Stato.