C’è davvero poco da festeggiare per le mamme italiane. Quando finalmente decidono di assecondare il proprio desiderio di maternità – tardi rispetto al resto dell'Europa, non prima di aver compiuto 32 anni in media – devono poi fare i conti con un mercato del lavoro che le emargina e una società che non riconosce il valore collettivo della maternità e scarica su di loro il lavoro di cura.

Il 6° rapporto “Le equilibriste: la maternità in Italia 2021” redatto da Save the Children mette insieme dati molto interessanti: occupazione e disoccupazione femminile, indicatori regione per regione su cura, lavoro e servizi per definire un vero e proprio "indice delle madri". Benché i numeri e la situazione siano in parte già conosciuti, il quadro che ne esce è davvero sconsolante.

I dati del rapporto, allora: nell’anno della pandemia, nonostante il blocco dei licenziamenti, si sono persi 456mila posti di lavoro. A essere più colpite le donne: 249mila unità rispetto ai 207mila uomini. Nel solo periodo aprile-settembre 2020 il calo di lavoratrici in Italia è stato doppio rispetto alla media europea (il 4,1 per cento delle 15-64enni, a fronte del 2,1 per cento della media UE), registrando la contrazione più elevata dopo la Spagna. Inequivocabile il rapporto tra perdita/rinuncia al lavoro e maternità: 96mila donne che tra il 2019 e il 2020 hanno perso il posto hanno figli, in particolare 77mila in meno tra coloro che hanno un bambino in età prescolare, 46mila tra chi ha un figlio alla primaria (6-10 anni), mentre risultano aumentate le madri occupate con figli da 11 a 17 anni (più 26mila).

Perché sono le mamme a perdere o a lasciare il lavoro? Innanzitutto perché l’occupazione femminile è segregata in segmenti del mercato del lavoro più fragili e precari, basti pensare che, come illustra il rapporto, “ancora nel 2020 sono le donne a rappresentare la grande maggioranza degli occupati con un lavoro part-time, quasi 3 su 4 (73 per cento del totale). Spesso sono mamme di figli minorenni: quasi 2 su 5 (il 38,1 pr cento) tra loro hanno un contratto part-time a fronte del 5,6 per cento dei papà nella stessa condizione”.

Va ricordato che le donne guadagnano meno e allora se si deve rinunciare a uno stipendio diventa inevitabile che rimanga a casa il genitore con il reddito inferiore. Inoltre, il lavoro di cura grava quasi esclusivamente sulle loro spalle e conciliare la vita professionale con quella privata troppo spesso è quasi impossibile, con la pandemia lo è ancora di più. Eppure, come sostiene la sociologa Chiara Saraceno, la miglior assicurazione contro la povertà infantile è il lavoro delle madri.

Sono ancora i dati del rapporto di Save the Children che aiutano a capire: “Lo shock organizzativo familiare causato dal lockdown, secondo le stime dell’Istat, avrebbe travolto un totale di circa 2,9 milioni di nuclei con figli minori di 15 anni in cui entrambi i genitori (2 milioni 460mila) o l’unico presente (440mila) erano occupati. Lo stress da conciliazione, in particolare, è stato massimo tra i genitori che non hanno potuto lavorare da casa, né fruire dei servizi (formali o informali) per la cura dei figli: si tratta di 853mila nuclei con figli 0-14enni, nello specifico 583mila coppie e 270mila monogenitori, questi ultimi in gran parte (l’84,8 per cento) donne”.

E per quelle che hanno lavorato in smart working, come dimostrano diversi studi a cominciare da quello della Fondazione Di Vittorio, l’equilibrismo è stato massimo. Certo, il governo ha istituito una serie di strumenti, dal bonus baby sitter ai congedi parentali, ma con alcune gravi incongruenze a cominciare dal divieto dei congedi durante il lavoro agile, che poco hanno aiutato le donne a conciliare, quasi nulla a condividere il lavoro di cura con i padri. Insomma la strada da fare è ancora lunga.

Ancor di più per le donne meridionali. Save the Children, nel suo rapporto, come ogni anno, grazie all’Istat introduce un "indice delle madri", che attraverso undici indicatori suddivisi in tre aree di intervento, cura, lavoro e servizi, misura le regioni che maggiormente si impegnano a sostenere la maternità: “Anche quest’anno, a essere più mother friendly sono le regioni del Nord: qui si registrano dati ben oltre la media nazionale, rispetto a quelle del Sud, dove tutti e tre gli indicatori si posizionano al di sotto di tale media.

Nell’indice generale, le regioni più virtuose risultano nuovamente le Province Autonome di Bolzano e Trento seguite da Valle d’Aosta (era al 4° posto) ed Emilia-Romagna (che perde una posizione). Fanalino di coda Campania (era penultima), Calabria (era al 19° posto) e Sicilia (che ha perso l’ultima posizione), precedute dalla Basilicata (occupava il 17° posto). Per il Mezzogiorno l’indice composito mostra sempre valori sotto 93, anche se il trend sembra in lieve miglioramento”.

Sconsolante sì, disarmante no perché è necessario reagire tanto più che le condizioni ora ci sono. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza va utilizzato per invertire una tendenza che ha già portato a una grave crisi demografica: non vi sarà nessun rilancio economico e sociale se non coinvolgerà anzi non partirà dalle donne. Non ci sarà nessun futuro per il Paese se la curva demografica non invertirà la sua tendenza, ed allora serve occupazione femminile di qualità, infrastrutture sociali, e valorizzazione dei talenti e dei desideri femminili.