Nel codice di famiglia del 1942 era prevista la potestà maritale e la norma (art. 144) stabiliva che “Il marito è il capo della famiglia, la moglie (…) è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza”. Ed ancora (art. 145): “Il marito ha il dovere di proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione della sua sostanza”. Nella nuova legge, approvata il 22 aprile 1975, la prospettiva cambia completamente stabilendo l’art. 24 che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri (…). Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro, professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.

I coniugi diventano quindi uguali davanti alla legge, il patrimonio di famiglia è condiviso secondo la comunione dei beni - scompare la dote - , i figli nati dal matrimonio acquistano gli stessi diritti dei cosiddetti ‘legittimi’, il tradimento del marito può essere causa di legittima separazione.

“Sono d’accordo - affermava quel giorno Nilde Iotti alla Camera - (…) che questa riforma del diritto di famiglia rappresenti un fatto politicamente molto rilevante, per il retroterra culturale nel quale essa è mutuata e per l’unanimità di consensi alla quale si è arrivati oggi. (…) la riforma del diritto di famiglia finalmente traduce in legge positiva quello che era un dettato della Costituzione repubblicana. (…) Come rappresentante del gruppo comunista posso affermare che noi siamo molto fieri di essere stati (non da soli, certamente) parte creatrice di questa grande riforma e di aver dato un apporto non solo di consenso, ma anche di ricreazione delle idee fondamentali di essa. Io credo che non si tratti di vedere quanto ognuno di noi ha portalo in più o in meno nell’elaborazione di una legge che si colloca tra le più avanzate e civili che regolano il matrimonio nel mondo moderno, ma mi sembra molto importante sottolineare (mi rifaccio a quanto ho detto all’inizio) che, malgrado il travaglio attraverso il quale é passata questa riforma (la lunga vicenda della legge sul divorzio e quella ancor più lunga del referendum per l’abrogazione della legge medesima), malgrado, ripeto, questo lungo e difficile travaglio, malgrado i numerosi momenti di grave tensione che avrebbero potuto distruggere quanto era stato faticosamente costruito, il vincitore è stato il processo di volontà unitaria espresso dalla parte migliore del mondo politico italiano”.

“La riforma porta in casa la parità”, titolerà il giorno seguente l’Unità descrivendo punto per punto i cardini della legge (il domicilio dei coniugi, l’età del matrimonio, i casi di annullamento, diritti e doveri dei coniugi, il cognome della moglie, la cittadinanza, il patrimonio, la separazione, i figli). Ma ne siamo davvero così sicure?

“Quando la Camera dei deputati ha approvato gli articoli del nuovo Diritto di famiglia (che dovranno ancora essere approvati al Senato) - scriveva nel febbraio 1973 Danielle Turone su Effe - (…) la voce è stata pressocché unanime: questo provvedimento rinnova in profondità la struttura familiare”. Ma “Non basta togliere dal codice la parola ‘patria-potestà’ lasciando integro il concetto, o concedere alla donna di mantenere il proprio cognome ‘aggiungendo quello del marito’, per credere di aver dato alle donne la parità”.

“Solo quando, oltre ai rapporti inter-familiari, muterà tutta l’organizzazione sociale, quando le sue possibilità di studio, di lavoro saranno uguali a quelle degli uomini, quando il ‘costo’ di una maternità non verrà addebitato al solo nucleo familiare ma diverrà un costo ‘sociale’, quando alloggi, servizi sociali ed assistenziali organizzati, toglieranno la donna dal ghetto delle quattro mura domestiche”, solo allora si potrà parlare di piena parità. Solo allora e purtroppo non ancora, non oggi. Serviranno 135 anni al mondo per raggiungere la parità economica tra donne e uomini. In politica, invece, la parità dovrebbe arrivare nel 2166.

In Italia le donne guadagnano il 19% in meno degli uomini che svolgono le stesse mansioni e solo il 29% delle lavoratrici supera i 1000 euro al mese. “La nuova legge sulla famiglia dà alle donne nuovi diritti”, ammetteva nel 1973 Danielle Turone - “Ma la parità è ancora lontana”. Sarebbe bello, oggi, poterle dare torto.