Il testo che segue è parte di un intervento tenuto nel corso dell'iniziativa Città sostenibili, lo scorso 24 marzo 2021.

Il 70% dei comuni italiani ha meno di 5mila abitanti, con appena il 16% della popolazione. Il 60% risiede in comuni con meno di 60mila abitanti, mentre il 25% vive in città che hanno più di 100mila residenti. Se consideriamo le città metropolitane, circa 9,5 milioni di persone risiedono nei comuni capoluogo, e più del doppio (22 mln) nell’area metropolitana complessiva.

Una simile varietà della struttura demografica urbana denota che servono risposte differenti in ragione della diversa geografia abitativa della popolazione e le conseguenze della pandemia sulle abitudini – e quindi sulle scelte – di vita delle persone potrebbero consegnarci nei prossimi anni un panorama ulteriormente mutato. Abbiamo avuto le città industriali, le città “infinite” o continue, quelle a “grappolo” o “diffuse”, i quartieri “dormitorio”, la fuga dai centri storici e la “gentrification”, la fuga dalle aree interne e la riscoperta dei piccoli centri… Tanti modi differenti di strutturare e strutturarsi dell’abitare con altrettanti differenti esercizi della mobilità e degli stili di vita che mutano al verificarsi di cambiamenti demografici, sociali ed economici cui le amministrazioni devono saper rispondere rapidamente, adattandosi, per garantire i diritti di cittadinanza. Mutamenti continui che devono porre al legislatore come prioritario parametro di riferimento i bisogni delle persone, prima ancora della cornice amministrativa in cui sono residenti, assumendo come obiettivo la realizzazione di un sistema integrato tra funzioni e istituzioni capace di agire a geometria variabile e di mettere al centro la necessità di non lasciare nessuno ai margini. E considerando la diffusione di una buona qualità di vita per tutti gli abitanti un fattore vincente, che migliora la città.

Quando, anni fa, si discuteva di riordino degli enti locali, soppressione delle province, realizzazione delle città metropolitane, fusioni di comuni, la Cgil fece una scelta ben precisa: partire non dai nomi degli enti, ma dalle loro funzioni. Partire dal chiedersi quale livello dovesse fare cosa, in ragione di quale obiettivo e, soprattutto, della maggiore efficacia nel raggiungerlo, per delineare quel “disegno organico” capace di rispondere ai bisogni delle persone e promuovere lo sviluppo delle comunità. E forse è da qui, oggi, che dobbiamo ripartire per determinare e realizzare un nuovo assetto degli enti locali, dai bisogni e dalle politiche da attuare per realizzare città realmente inclusive con un’articolazione di funzioni orientata sul punto di vista delle persone che le abitano e fondata sulla prossimità.

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Perché le città, grandi o piccole che siano, sono i luoghi della prossimità, della vita quotidiana e  delle relazioni. Ed è a partire dalla capacità delle città di generare e alimentare le relazioni che si può misurare la loro capacità di essere inclusive:

  • - relazioni tra persone, che si fanno comunità attraverso la condivisione dello spazio pubblico la cui fruizione deve essere promossa per diventare vita pubblica e non ostacolata con restrizioni di sorta che limitano l’accessibilità dei luoghi;
  • relazioni tra persone e istituzioni pubbliche chiamate a garantire servizi territoriali integrati per rispondere alla pluralità di bisogni dei suoi abitanti;
  • relazioni tra persone e formazioni sociali che, in sinergia con le istituzioni pubbliche, fanno sistema nel non lasciare indietro nessuno, a partire dai più fragili.

Ne eravamo consapevoli già prima, ma la pandemia, con le sue conseguenze sociali ed economiche prodotte dalle necessarie misure di contenimento del contagio, ha mostrato ancora di più quanto siano le città i luoghi in cui le distanze e le disuguaglianze possono ridursi con la capacità di creare reti e fare sistema, o diventare incolmabili se le articolazioni amministrative che le governano non riescono ad assolvere pienamente al dovere costituzionale di rimuovere tutti gli ostacoli al diritto di ogni persona a una vita dignitosa fin dai primi anni e per tutto l’arco della vita. Se non sono in grado di promuovere, con un’azione quotidiana che prenda in carico tutti i suoi abitanti, l’equità e la giustizia sociale. Se nelle città non si costruisce quella infrastruttura sociale forte capace di agire non solo in termini “riparativi”, rispondendo ai bisogni emersi, ma anche e soprattutto in termini “proattivi”, rimuovendo le disuguaglianze per consentire il pieno sviluppo di ciascuno.

Le città, quindi, non come luogo di esclusione e separazione, ma di inclusione e condivisione, dove i conflitti non vengono negati e rimossi, ma emergono e vengono affrontati, assumendo la dimensione collettiva di una comunità con molteplici bisogni e contraddizioni cui dare risposte e soluzioni, sì differenti, ma integrate e coordinate.

E se la pandemia ha messo sotto la lente di ingrandimento tutta la vulnerabilità dei contesti urbani - evidenziando quanto le città possano essere diseguali, tra loro e al loro interno, quanto non sia garantito l’accesso universale alle dotazioni urbane in generale, ma anche ai servizi pubblici e sociali, in particolare alla residenzialità e alle cure -, ci consegna anche l’opportunità e l’obbligo di far sì che nulla sia più come prima e che le risorse del Next Generation EU siano utilizzate per rafforzare le infrastrutture sociali dei territori, ridisegnando il rapporto tra servizi e persone e il sistema di welfare locale nel suo complesso al fine di rendere le città i luoghi in cui le istituzioni pubbliche agiscono e sono riconosciute come i soggetti che si prendono cura degli abitanti rispondendo e prevenendo i loro bisogni.

Risorse che dovranno essere indirizzate al fine di ridisegnare le città con la capacità di pensarle dal punto di vista di che le abita: dei bambini che hanno bisogno di spazi educativi e ricreativi di vicinato, dei giovani che necessitano di luoghi di socialità e confronto, delle persone con disabilità cui assicurare il pieno diritto alla mobilità, delle famiglie con le esigenze di conciliazione, delle persone anziane o non autosufficienti con bisogni di socialità e salute che devono trovare risposte nella prossimità e non nella rinuncia alla quotidianità degli affetti, delle povertà che devono trovare sostegno continuativo e percorsi di inclusione, non solo interventi di emergenza o segregazione… e tanti altri esempi si potrebbero fare. 

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Ripensare le città dal punto di vista dei bisogni e delle aspettative di chi le abita richiede da una parte la capacità delle istituzioni di agire con spirito cooperativo e collaborativo, integrando competenze e funzioni al fine di mettere in atto tutte le politiche necessarie a dare risposte a una pluralità di istanze, dall’altra richiede un investimento straordinario di risorse. Per questo non riteniamo sufficienti quelle individuate dalle Missioni 5 e 6 del Pnrr conosciuto. Serve ben altro se vogliamo assumere gli obiettivi generali di inclusione e tutela della salute atti a rafforzare il sistema di welfare territoriale, e se vogliamo azzerare i divari esistenti tra le differenti aree del paese – nord/sud, grandi città/aree interne, capoluoghi/piccoli comuni, centro/periferia.

E in questo ripensamento delle città e della vita urbana dobbiamo svolgere sempre di più – in ragione del continuo mutare dei bisogni e delle consuetudini – il nostro ruolo di organizzazione sindacale confederale con la nostra azione di contrattazione sociale e territoriale. Forti della capacità di allargare e coniugare la tutela dei diritti di cittadinanza con quelli del lavoro, e della capacità di prevedere come i cambiamenti connessi al mutare dei sistemi produttivi incidono sulla vita delle persone, dobbiamo integrare l’azione di rivendicazione e confronto nazionale con l’opera quotidiana nei territori aprendo tavoli con gli attori locali. Dobbiamo agire la contrattazione, con il coinvolgimento di tutte le nostre strutture confederali, di categoria e dei servizi, per rendere le nostre città e il territorio inclusivi. 

Il nostro Paese tornerà ad essere tragicamente come era prima di questa emergenza se non sapremo tutti ripensare in modo inclusivo le città, i luoghi della vita quotidiana, attraverso la realizzazione di un nuovo modello di welfare che superi la logica dei trasferimenti monetari per articolarsi in una capillare e integrata rete di servizi pubblici, capace di prendere in carico le persone rispondendo alla molteplicità dei loro bisogni (sanitari, sociali, educativi, abitativi) e capace di promuovere il pieno sviluppo di ciascuno abbattendo le disuguaglianze. Un modello di città inclusiva:

  • - che non scarichi sulla dimensione privata i carichi di cura, ma li sostenga con politiche per la salute centrate su una prevenzione che agisce sui determinanti sociali, economici, ambientali, e su una forte rete di servizi integrati socio-sanitari di base diffusi nel territorio;
  • - che assuma la questione della non autosufficienza e del diritto alla vita indipendente (vale per le persone anziane e disabili di ogni età) come centrale in tutte le politiche (urbanistiche, abitative, sociali, sanitarie, ecc), e si organizzi per rimuovere barriere e ostacoli che limitano la libertà delle persone;
  • - che contrasti la povertà e la marginalità estrema, prevenendo e rimuovendo le molteplici cause che le generano, a partire dalle necessarie politiche di sostegno all’abitare, e che accompagni in percorsi di inclusione tutte le fragilità sociali, rendendo strutturali le politiche e i servizi necessari;
  • - che sappia disegnarsi a misura di bambino, assumendone i bisogni di sviluppo e crescita educativi e di socializzazione, e favorire la conciliazione per i genitori;
  • - che sappia garantire alle donne la libertà di muoversi in piena sicurezza;
  • - che sappia governare i processi migratori attivando percorsi di integrazione che promuovano il senso di appartenenza alla comunità locale riconoscendo pari diritti e valorizzando (anziché marginalizzare) la diversità culturale;
  • - che sappia declinare la “libera fruizione degli spazi pubblici”, non con la repressione e l’allontanamento di chi non è ritenuto rispondente a un’idea ottocentesca di “decoro urbano”, ma, all’opposto, rendendo possibile un uso degli spazi urbani realmente libero in quanto democraticamente garantito a tutti.

Un modello di città inclusiva che sappia tenere insieme le risposte che attraverso i servizi le istituzioni pubbliche devono dare ai bisogni dei cittadini, con la valorizzazione dello spazio pubblico e delle aree di interesse collettivo come luoghi di vita comunitaria in cui rafforzare la coesione sociale e territoriale.

Giordana Pallone è coordinatrice Area Welfare della Cgil