È questa una fase di scelte importanti legate all’evolversi della pandemia. La curva dei contagi pare si vada stabilizzando quindi, i meccanismi di separazione hanno prodotto effetti, seppur ancora parziali. Adesso, dovranno essere prese decisioni che contemperino la priorità salute con la ripresa produttiva e sociale. Consapevoli di proiezioni molto gravi per il futuro della nostra economia (per ultimi i dati del FMI e di BdI) ma evitando la falsa notizia che il virus è sconfitto (magari) e tutto può riprendere come prima. 

Come possiamo approcciare questa lunga Fase 2? Prima di entrare nella discussione sui singoli punti di merito che dovranno coniugare il futuro delle attività produttive, della mobilità, dell’istruzione con un’epidemia in calo ma chissà per quanto tempo in atto, penso sarebbe utile qualche riflessione quadro. Come tutti diciamo(ma bisogna essere conseguenti),in primo luogo va tenuto ferreo rigore sulla priorità sanitaria, perché la vita e la salute sono il punto fondamentale e perché ricadute sarebbero fatali per le persone ma anche per l’economia del Paese che non reggerebbe un secondo shock.  In secondo luogo, ragionare sul versante sociale di come questa terribile emergenza ha già cambiato e sta continuando a cambiare i comportamenti delle persone. La malattia e le conseguenti paure, hanno infatti messo in discussione molte delle precedenti certezze, abitudini, ideologie. 

Qualche mese fa, l’individualismo e la totale libertà del singolo erano gli aspetti di maggior consenso, la solidarietà e l’agire collettivo un vecchio arnese del passato. Adesso che il problema riguarda tutti, che le cose devono essere decise assieme, chi trasgredisce personalmente non è più il più furbo, ma un pericolo per la collettività. Passata la nottata, anche questo tornerà come prima? Dobbiamo allora ragionare su che tipo di messaggio mandare ai cittadini. Intanto perché la nottata non passerà per un periodo molto lungo e per questo non solo le scelte concrete, ma il confronto sul futuro sociale è così importante. Il tema della libertà aveva avuto una forte torsione individuale, l’eguaglianza declassata, e la fraternità in parte scomparsa. La solidarietà (sinonimo di fraternità) è invece l’elemento che riemerge con forza da questa fase 1 e va coltivata, assecondata, non dispersa nelle scelte successive. 

A partire dalle difficilissime scelte economiche e produttive che saremo chiamati a prendere e dalle paure e insicurezze che da sempre il tema economico e del lavoro trasmette alle persone: possono essere coniugate a solidarietà o rancore, dipende da noi. Partiamo dal lavoro, la disoccupazione crescerà fortemente nel 2020 per chiusure attività e cessazioni di contratti; la cassa integrazione riguarda già oltre il 25% delle aziende, il lavoro povero sta aumentando ancora. È davvero la priorità per tutti? Allora servono tutele vecchie e nuove per chi lavora, perde o cerca il lavoro; ma soprattutto serve un’altra concezione del suo ruolo. Gli ammortizzatori sono necessari per tutto il tempo dell’emergenza e molti altri saranno necessari anche nel medio periodo, ma è adesso che dobbiamo dare, oltre le tutele possibili, speranza e non depressione al futuro delle persone che perdono il lavoro per la prima volta, a chi lo aveva ritrovato da poco dopo la precedente crisi, a chi è finito nel limbo del lavoro precario, ad un’area molto vasta di disoccupati di lungo periodo e di inattivi che cercano lavoro, ad una forte crescita della povertà anche in aree di cittadini che non l’avevano mai conosciuta. 

Per questo, occorre ragionare dei meccanismi di sviluppo futuro ma anche su come inserire all’inizio di ogni scelta concreta il concetto di un nuovo rapporto fra imprese e lavoro e all’interno dello stesso lavoro. Proprio in una fase che può provocare forti conflittualità il tema della qualità, del coinvolgimento e della partecipazione è all’ordine del giorno. La ripresa sarà graduale, via via nelle aziende che riaprono, gli orari sfalsati, le presenze scaglionate, oltre ai necessari interventi di dotazione sanitaria. Bisognerà allora, agire con forme diverse di tutela del lavoro e per la massima occupazione, usare la leva degli orari in ottica solidale e sanitaria, e non solo produttiva; formare le persone ai rischi durante il lavoro nella nuova fase, formare le persone per lavori ed attività che cambiano anche nella stessa azienda, e così via. La competizione sul costo del lavoro è l’antitesi di tutto questo. 

Significa cambiare profondamente un pensiero economico, basato sul primato della finanza rispetto al bene pubblico. Una deriva che ha portato non solo al calo delle tutele sociali ma, per milioni di persone, allo svilimento delle tutele sociali, ad un ruolo residuale del pubblico, alla crescita di diseguaglianze, al ruolo spesso superfluo della ricerca per l’innovazione. Prenderne davvero tutti atto, rappresenterebbe un fondamentale elemento di fiducia per le persone nel definire il futuro prossimo. Ad esempio, di fronte al forte disagio sociale già esistente, e alla lunga fase di stagnazione solo alcuni mesi fa affermare che -invece di redistribuire i dividendi era necessario investire queste risorse in azienda- era tacciato da “esproprio proletario”, oggi non solo è pratica diffusa ma è indicato come criterio dalle istituzioni pubbliche. 

Dunque si può, teniamone conto per il futuro. Soprattutto, parlando di futuro, non si può dimenticare gli evidenti problemi strutturali del sistema produttivo italiano. Da anni cresciamo meno di altre nazioni europee, nell’ultimo anno abbiamo alternato recessione e stagnazione, da dodici mesi la produzione industriale è in calo. Facciamo finta che non sia così o la necessaria iniezione di liquidità prima (Fase 2) e di investimenti poi (Fase 3), oltre che all’emergenza deve pensare a tutto questo? 

Allora, se nell’immediato la liquidità garantita dal pubblico deve avere come contrappeso il non licenziare, salvaguardare il lavoro, per il futuro non basta. Nella Fase 3 gli investimenti pubblici devono essere fortemente legati a contestuali investimenti privati, alle assunzioni, all’aumento di capitale delle imprese, alla non delocalizzazione ma anzi a far tornare le produzioni in Italia, ad investire molto al sud sapendo che di ogni euro investito lì il 40% ritorna in produzione al centro nord, a settori che sono moltiplicatori di attività come l’edilizia e così via. 

Non basta. Dobbiamo scegliere non solo la quantità ma anche la qualità degli investimenti. Le direttrici possono essere molte, ma ne emergono alcune prioritarie: 

- Sanità e welfare come elementi fondamentali di comunità ma anche come motori dello sviluppo futuro. Oggi nessuno oserebbe negarlo, non è stato così nel passato ma dovrà esserlo nelle future scelte economiche e sociali;

- L’ambiente e il green new deal, non solo quindi la tutela ambientale ma anche in questo caso, farlo diventare elemento centrale dello sviluppo futuro declinato su riconversione produttiva, assetto idrogeologico, energia e fonti alternative;

- L’emersione di centinaia di migliaia di persone che lavorano in Italia, drammaticamente sfruttate e che non vengono fatte contribuire alle dinamiche sociali ed economiche del Paese, può essere ancora ostaggio di razzismo, xenofobia, di attività criminali?

- La chiusura delle scuole, lo smart working, l’impossibilità di uscire, ha evidenziato la nostra arretratezza strutturale. Troppe aree svantaggiate, troppa poca connessione ad alta velocità. Emerge anche in questo caso il ruolo del pubblico, di una rete unica c’è necessità, così come di superare la divisione delle varie aree in base al ritorno dell’investimento. Si evidenzia un doppio problema che riguarda persone e famiglie: capacità di utilizzo delle tecnologie e accesso economico. Indicando la necessità dell’identificazione di un nuovo servizio universale rispetto al passato;

- Scuola e formazione, uno dei pilastri fondamentali sul quale ricostruire dal punto di vista culturale è proprio questo. Da settembre è presumibile che le scuole resteranno aperte tutta la giornata per recuperare quanto perso in questi mesi.

Penso però che questa dovrà essere una scelta per sempre e non solo per gli studenti, ma per creare un punto di aggregazione culturale e solidale per i cittadini che la diffusione così ampia delle scuole nel territorio può offrire. Anche in base a queste esigenze dobbiamo governare l’introduzione della robotica e dell’intelligenza artificiale. Era il centro della discussione alcuni mesi fa, durante l’emergenza non se ne parla più, ma non per questo la sua diffusione si è fermata, al massimo rallentata. È uno sviluppo inevitabile, ma non ci possiamo permettere che si sommino effetti di perdita di lavoro e parcellizzazione di mansioni a quelle già provocate dalla pandemia. 

Ho parlato delle scelte nazionali, ma è evidente come tutto questo interferisce con le scelte europee di cui invece si parla tantissimo, spesso a sproposito, e senza alcuna coerenza come ha dimostrato il recente voto al Parlamento europeo dei gruppi politici italiani. Tre gli strumenti nuovi finora indicati per la riunione dei capi di Stato del 23 aprile (oltre a quanto già deciso dalla Bce e dalla Commissione) Sure, Bei, Mes, cubano poco più di 500 miliardi. Ancora pochi per le necessità future, ma soprattutto con una forte controversia tra stati e forze politiche. Alcuni vengono dipinti come positivi, altri demonizzati. In realtà nessuno regala niente, in tutti i casi si tratta di prestiti che devono essere restituiti e come sempre in questi casi (curiosamente di questo si discute poco) bisognerebbe trattare su tassi di interesse e i tempi di restituzione (2 anni o 20 anni fa la differenza). Naturalmente traggono origine dai trattati, che pongono vincoli futuri come il Mes. È su questo che la chiarezza deve essere massima, dal fiscal compact al fondo salva stati: il termine “sospensione” non è chiaro cosa comporterà alla fine dell’emergenza.

Su questo occorre la massima chiarezza ora e se fosse confermata la completa non condizionalità delle linee per gli interventi sanitari del MES dovremmo, secondo me, ragionarci. Non solo per i 36 miliardi a disposizione, cifra di per sé non disprezzabile, ma per la sua destinazione vincolata. Veniamo da decenni di tagli al Ssn, oggi per tutti è la priorità ma vorrei essere più sicuro che lo sarà anche nel futuro; una linea di credito vincolata a questo devo dire che qualche rassicurazione in più la dà.  Ma i 500 miliardi attivabili con questi tre strumenti, comunque non bastano per la ricostruzione, ne occorrono almeno quattro volte tanto ed ecco perché le resistenze sugli altri strumenti di ci si parla (eurobound, recoverybond) sono così forti. Con quanto finora proposto sono i singoli stati che vi ricorrono e che si indebitano; con gli altri meccanismi la garanzia deve essere di tutti. E’ questo il vero motivo, non l’alibi della mutualizzazione di un debito pregresso che non esiste, che imbriglia la discussione. 

Infine, si continua a parlare di una crisi devastante come una guerra e questo è vero, sia per le quantità economiche che per le dimensioni giornaliere dei decessi.  La ricostruzione, come quantità di risorse, deve essere rapportata a quella del passato, gli strumenti no. Mi sbaglierò, ma sento parlare troppo di deregolazione totale, di mani libere, di ruolo sociale del lavoro nero, di sospensione di diritti. Semplificare è necessario ma un approccio generalizzato di questo genere è sbagliato e pericoloso. 

Ho iniziato questo ragionamento parlando di possibili sbocchi solidali o della crescita di rabbia sociale. Non c’è dubbio che qualcuno potrebbe essere tentato di rispolverare un vecchio slogan del passato “Meglio un lavoro qualsiasi, a qualunque condizione, che non lavorare”, ma poi? Dopo l’ultima guerra le condizioni e lo sfruttamento del lavoro erano terribili, portarono a forti proteste sociali e al positivo sbocco nello Statuto dei diritti dei lavoratori di cui proprio quest’anno festeggiamo il 50esimo. I tempi sono diversi, la storia non si ripete uguale, ma dalla nostra storia possiamo trarre insegnamenti importanti, ripartendo proprio dallo Statuto. Il vero ruolo dei governi e delle forze sociali per un futuro migliore passa anche da qui: regole comuni, rispetto reciproco, condivisione e partecipazione, valore sociale del lavoro.

Fulvio Fammoni è il presidente della Fondazione Di Vittorio