Da ormai un mese il nostro Servizio sanitario nazionale sta lottando con tutte le proprie forze per poter assistere le tante persone colpite dal Covid-19, pur avendo una struttura che è stata indebolita nel corso degli ultimi decenni. Le difficoltà che oggi sono avvertite drammaticamente da tutta la popolazione hanno però radici più profonde. Il coronavirus ha solo evidenziato, in maniera più acuta e grave, una crisi strutturale che la sanità pubblica vive da prima che iniziasse l’epidemia. Nonostante l’Italia abbia un sistema sanitario tra i migliori del mondo che ha contribuito all’aumento della aspettativa e della qualità della vita degli italiani, negli ultimi decenni il Ssn ha subìto tagli alla spesa e mancati investimenti che i diversi governi nazionali hanno giustificato con la necessità di mantenere i bilanci in equilibrio, ridurre gli sprechi ed eliminare le inefficienze. L’Italia ha così ridotto drasticamente le assunzioni del personale più giovane e la creazione di posti letto, nonostante il fabbisogno di assistenza medica fosse già aumentato per via dell’invecchiamento demografico. I dati della Ragioneria Generale dello Stato mostrano come il personale dipendente a tempo indeterminato del Servizio Sanitario Nazionale sia passato dai 690 mila del 2008 ai 647 mila del 2017, con una riduzione complessiva di 43 mila unità. 

A partire dal 2013 si è fatto maggiore ricorso a tipologie di lavoro precario, che nell’intervallo di tempo analizzato (2008-2017) sono così aumentate: +0,6% dei contratti a tempo determinato e in formazione lavoro, +45,3% dei contratti di somministrazione e +6,2% dei lavori socialmente utili. Nel 2017 la quota di lavoratori precari sul totale dei lavoratori stabili è quasi del 7%.  Secondo i dati forniti del ministero della Salute, i posti letto complessivamente disponibili nelle strutture pubbliche sono diminuiti dai 187 mila del 2010 ai 157 mila del 2018, con una riduzione di quasi 30 mila posti, pari al 15,9%.

Nello stesso arco temporale, i posti letto disponibili nelle strutture private convenzionate, quindi sostenute con finanziamenti pubblici, come le case di cura accreditate, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e i policlinici privati, sono passati dai 57 mila del 2018 ai quasi 54 mila, con una riduzione appena superiore al 6%. Quindi, la carenza di organico e di posti letto con la quale il Ssn sta affrontando l’attuale emergenza non sono il frutto della fatalità, bensì il risultato di chiare scelte di politica economica che i governi italiani hanno reiterato negli anni con il duplice obiettivo di organizzare la sanità pubblica seguendo i canoni dell’impresa privata e di indebolire le strutture pubbliche per favorire quelle private. Questi due obiettivi sono stati sostenuti da una narrativa dominante che ha indicato la spesa pubblica come uno spreco e il lavoratore pubblico come un fannullone, puntando a ridurre le risorse nei servizi pubblici essenziali e a screditare milioni di persone che lavorano tutti i giorni per tutti noi.

Ciò ha impedito qualsiasi dibattito su come l’intervento pubblico in economia sia fondamentale anche per tutelare la salute individuale dei cittadini e quella collettiva di un intero Paese. Quindi, tra il depotenziamento della sanità pubblica e l’espansione di quella privata, il diritto alla salute, sancito nella Costituzione italiana, dipende sempre di più da un soggetto economico che ha come obiettivo non la qualità dei servizi bensì il profitto. Prova di tutto questo è anche l’indisponibilità delle organizzazioni della sanità privata a prevedere aumenti salariali nel rinnovo di un contratto collettivo scaduto nel 2007. In una emergenza di tale portata, è emersa anche l’assenza di una produzione italiana dei dispositivi di protezione individuale (dpi), mascherine in particolare. La mancanza di una politica industriale, coordinata a livello centrale, costringe oggi il nostro Paese a importare i dpi dall’estero a costi maggiori oppure a produrli a livello nazionale solo dopo una riconversione delle imprese. In entrambi i casi, l’estremo ritardo nell’approvvigionamento e nella distribuzione di questi dispositivi ha esposto a grandi rischi il personale medico-sanitario. Il contagio tra i lavoratori della sanità, infatti, risulta in crescita perché all’assenza dei dispositivi di protezione individuale non si è risposto immediatamente con i tamponi al personale impegnato in prima linea. Inoltre, il sottodimensionamento strutturale del personale, in una situazione di maggiore pressione, genera una bassa rotazione dei turni e un aumento dei compiti da svolgere che impediscono, a loro volta, di far fare la quarantena ai contagiati.

L’Italia è così sottodimensionata a livello medico e sanitario che, in piena emergenza coronavirus, è stata costretta a richiamare il personale già in pensione, a chiederlo in prestito dall’estero e ad accelerare l’entrata in servizio dei neolaureati. Questi sono gli effetti di un Paese che, da un lato, non ha nessuna programmazione pubblica di lungo periodo capace di anticipare le esigenze di una società in transizione demografica e che, dall’altro, lascia emigrare circa 1.500 giovani medici specializzati all’anno, oltre a tanti altri infermieri e ricercatori, in cerca di migliori condizioni lavorative e salari più alti. Un’emorragia di capitale umano per l’Italia, che ha sostenuto i costi della loro formazione, e di cui si beneficiano i Paesi pronti ad assumerli.

Questa emergenza ha permesso di fare una radiografia anche al regionalismo all’italiana. Un sistema disordinato e confuso, frutto della riforma costituzionale del 2001, che ha regionalizzato la sanità e ampliato le disuguaglianze territoriali. Le Regioni che fino a qualche mese fa chiedevano a gran voce maggiore autonomia, sono paradossalmente quelle che oggi invocano l’aiuto dello Stato per evitare il collasso dei loro sistemi sanitari. Questo dimostra che neanche quelle più attrezzate si possono salvare da sole e sarà quindi necessario ridiscutere dei rapporti tra Stato e Regioni, a partire dalla ri-nazionalizzazione del Ssn e dal rilancio di quei principi di universalità, uguaglianza e solidarietà che lo hanno ispirato fin dalla sua istituzione nel 1978. In questo momento, è prioritario che il governo nazionale fornisca al Ssn tutti gli operatori medico-sanitari e tutti gli strumenti per non mettere in pericolo la vita di chi lavora per salvarla a tutti gli altri e per superare l’emergenza Covid-19. Il decreto legge “Cura Italia” è certamente un primo passo per dare ossigeno a un sistema sanitario in affanno da lungo tempo. Ma è comunque ancora del tutto insufficiente per invertire la rotta di una spesa sanitaria che in rapporto al prodotto interno lordo è diminuita dal 7,10% del 2010 al 6,60% del 2018.

Una volta stabilizzato il Paese dal punto di vista sanitario, ci si potrà concentrare sulla ripresa economica. Gli scenari economici restano molto incerti perché dipenderanno dall’evolversi dell’epidemia e anche dalle politiche economiche. In ogni caso, bisognerà evitare che la caduta dei consumi inneschi il tracollo della già fragile struttura produttiva italiana che, dati Istat alla mano, risulta composta al 95,2% da micro e piccole imprese che occupano il 46,7% degli addetti complessivi. Il crollo della produzione, infatti, farebbe aumentare i fallimenti delle imprese con una contestuale riduzione dell'occupazione, portando con sé un drammatico aumento della disoccupazione e un impoverimento generalizzato della popolazione. Per questo motivo, è necessario pensare fin da subito a misure pubbliche inusuali per sostenere il reddito di tutti, a partire dai più fragili e meno tutelati. Se dopo il 2008 l’Italia ha provato a reggere alla crisi economica globale tramite il welfare familiare, sostenuto principalmente dal risparmio privato, oggi questo non è più possibile data l’estensione e la profondità di questa crisi.

Questa emergenza apre, quindi, diversi spazi per un nuovo intervento pubblico in economia perché ha messo in crisi il mantra neoliberista “meno Stato, più mercato” che da decenni orienta le scelte economiche dell’Unione europea e dei governi nazionali. La discontinuità proposta dalla Commissione europea, come la sospensione del Patto di Stabilità, è un primo timido passo che va però sostenuto con politiche fiscali espansive e politiche monetarie più incisive. L’impatto economico e sociale di questa epidemia, che non ha precedenti dal secondo dopoguerra in poi, sta facendo riscoprire l’importanza dello Stato e il ruolo essenziale dei servizi pubblici, anche a chi li ha avversati fino a ieri. I servizi pubblici devono essere finanziati attraverso una tassazione più progressiva sui redditi e sulle ricchezze, oltre al recupero dell’evasione, e non da donazioni dei miliardari italiani e da raccolte fondi promosse in queste settimane da alcuni personaggi famosi. Quando questa emergenza sarà finita, avremo una grande opportunità per ripensare il nostro modello di sviluppo, rimettendo al centro dell’agenda economica la piena e buona occupazione, soprattutto nei settori pubblici, e la spesa pubblica come una risorsa fondamentale per rispondere ai bisogni della popolazione.

Nicolò Giangrande, economista dell'Università del Salento