La diffusione del Covid-19 non fa distinzioni. Ma la retorica della livella, oramai è più che evidente, non regge. Nei periodi di crisi, infatti, gli effetti delle disuguaglianze formali e sostanziali diventano più evidenti. Perché per “stare a casa” bisogna avere una casa, per fare “lavoro agile” bisogna avere un lavoro, per fare la spesa scaglionati bisogna avere in tasca i soldi necessari a comprare beni di prima necessità. In questa situazione, tra più fragili, e quindi a maggior rischio contagio, ci sono sicuramente anche i migranti e i richiedenti asilo.

L’allarme dell’impatto del contagio sulla vita e sui diritti dei cittadini stranieri è stato lanciato nei giorni scorsi in un documento sottoscritto da un centinaio di associazioni. L’obiettivo è “spezzare il silenzio” su questo tema, ed evidenziare le criticità che in piena pandemia contraddistinguono la condizione dei cittadini stranieri in Italia. In particolare, l’attenzione è focalizzata sui richiedenti asilo, sui senza fissa dimora e sui braccianti ammassati negli insediamenti informali.

Il primo firmatario del documento è l’Asgi (l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione), ma ci sono anche ActionAid, Naga, Gruppo Abele, Mediterranea, Emergency e moltissimi altri ancora. Il mondo dell’associazionismo, insomma, si ritrova unito nel focalizzare l’attenzione sulle persone prive di “effettiva tutela”, ai margini del sistema sanitario, senza i minimi strumenti di contenimento come mascherine, guanti, acqua e servizi igienici.

“I migranti sono oggettivamente impossibilitati a rispettare le misure di prevenzione”

I migranti sono “oggettivamente impossibilitati a rispettare le misure previste dal legislatore, vivendo in luoghi che di per sé costituiscono assembramenti”. Una bomba sanitaria e sociale pronta ad esplodere, che si annida soprattutto nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria, che sopratutto a partire dall’introduzione del decreto sicurezza si sono trasformati in grandi contenitori, e hanno subito consistenti tagli ai servizi sanitari. Ma oggettivi assembramenti sono anche i centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e gli hot-spot. Si stima che nei grandi centri di accoglienza, a metà marzo, erano ancora presenti più di 62 mila persone.

UN SISTEMA CHE ALIMENTA IL CONTAGIO
Così come in molti altri campi, insomma, l’epidemia sta sparigliando le carte in tavola. L’intero sistema di accoglienza italiano, così come è uscito dalla stretta del 2018 voluta da Matteo Salvini, è diventato un potenziale, enorme focolaio di contagio. L’accoglienza diffusa, che è stata sostanzialmente azzoppata, invece, potrebbe rappresentare l’unica soluzione possibile. Oltre alla ricognizione dei gravi buchi del sistema, in effetti, le associazioni propongono “soluzioni concrete ed immediate” per poter “garantire a tutte le persone le medesime tutele previste dai provvedimenti per contenere il contagio”.

Le associazioni chiedono che venga consentito l’accesso al Siproimi (ex Sprar) anche per coloro “che ne sono stati esclusi dal primo decreto sicurezza” (i titolari di permesso umanitario e i richiedenti asilo ndr) e che le persone senza fissa dimora o che vivono negli insediamenti informali, e che lavorano sopratutto per l’agricoltura, siano accolte in strutture adeguate con acqua e servizi igienici.

“La situazione che stiamo vivendo sicuramente estremizza tutti i pericoli che avevamo già evidenziato nel decreto sicurezza, ma adesso i problemi stanno emergendo con assoluta chiarezza”, commenta Loredana Leo, avvocato dell’Asgi. Tra i problemi più seri, conferma, “c’è un’accoglienza che oggi, sopratutto dopo la riforma, è fondata su centri di grandi dimensioni e sulla negazione dell’accesso ai Siproimi per i titolari di protezione umanitaria e per i richiedenti asilo. Questi maxi-centri erano inadatti già in situazioni normali, ma oggi potrebbero diventare dei veri e propri focolai, perché non possono fornire servizi adatti a contenere il contagio”.

“I grandi centri di accoglienza sono potenziali focolai di contagio”

A rischio, oltre agli accolti, ci sono anche tutti i migranti che sono stati sostanzialmente espulsi dal sistema. “Sono coloro - spiega ancora l’avvocato Leo - a cui non è stato rinnovato il permesso perché godevano della protezione umanitaria, i cosiddetti ‘diniegati’, ma ci sono anche i minori non accompagnati che stanno diventando maggiorenni in questi giorni. Ci arrivano giorno dopo giorno parecchie segnalazioni da parte dei nostri operatori di espulsioni arbitrarie dai centri. Molte persone sono diventate e stanno diventando irregolari, ed è una cosa che in questo momento potrebbe avere conseguenze davvero drammatiche”.

Una circolare del 25 marzo, emanata dal Dipartimento per le liberà civili e l'immigrazione del ministero dell'Interno, chiarisce che la prescrizione dei termini prevista dal decreto "Cura Italia" vale anche per i permessi di soggiorno in scadenza  tra il 31 gennaio e il 15 aprile 2020, che vengono prorogati fino al 15 giugno. Due mesi, che però per l'Asgi non basteranno. "Servirebbero almeno sei mesi o un anno", conferma l'avvocato Leo.

BUROCRAZIA CANAGLIA
Per i migranti, oltre a quello sanitario, s’è quindi aperto anche un fronte burocratico. Il 9 marzo una circolare del ministero dell’Interno disponeva la chiusura degli uffici delle questure dedicati al rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno. In questi uffici, i cittadini stranieri richiedevano direttamente i documenti, ad esempio per la protezione internazionale o il ricongiungimento familiare. Oggi l’emergenza ha interrotto il servizio, e queste persone trovano enormi difficoltà ad acquisire la ricevuta di presentazione della domanda, il cosiddetto “foglio rosa”. Un documento, tra l’altro, indispensabile per chiedere l’iscrizione al Sistema sanitario nazionale.

“L'emergenza epidemiologica è un rischio per loro e per l'intera collettività”

“Tutto ciò, nel pieno di un’emergenza epidemiologica, si trasforma in un rischio per loro, ma anche per l’intera collettività”, commenta Giuseppe Massafra, della segreteria nazionale della Cgil. Sulla situazione dei migranti al tempo del coronavirus, Cgil, Cisl e Uil hanno inviato ieri (25 marzo) un documento al governo in cui chiedono di “definire alcuni dei punti più urgenti che andrebbero affrontati per evitare che l’impatto del Covid-19 sia ancora più devastante”, e chiedendo un confronto con i ministeri degli interni, del lavoro e degli esteri.

“Il problema dei documenti per cittadini stranieri – continua Massafra - riguarda tutti coloro che hanno il permesso in scadenza, ma anche chi ha un permesso di lavoro ma non riesce a rifarlo, o che magari, a causa della crisi, scende sotto il livello di reddito necessario per rinnovarlo. Alcuni aspetti sono stati affrontati nel decreto “Cura Italia”, ma esistono ancora delle difficoltà oggettive e materiali. Chi non può fare richiesta non può iscriversi all’anagrafe e quindi non può essere curato dalla sanità pubblica. Oggi questo è un dramma per loro, ma è un problema serio anche per tutta la collettività”.

“Chi non può richiedere il permesso di soggiorno non può essere curato dalla sanità pubblica”

La Cgil chiede quindi di prorogare la validità dei permessi, per evitare rinnovi già scaduti al momento del ritiro. Lo stesso vale per i documenti di soggiorno di chi è in attesa di occupazione, che andrebbero estesi dai 12 ai 18 mesi. “Bisogna poi consentire ai cittadini stranieri di richiedere tramite pec un appuntamento per formalizzare la domanda di protezione e di iscriversi al sistema sanitario, anche se non si è in possesso del ‘foglio rosa’”.

UN ESERCITO DI INVISIBILI
La massa degli irregolari prodotti dal decreto sicurezza, insomma, è oggi esposta al rischio del contagio più degli altri. Lo sono sopratutto i migliaia di migranti costretti a vivere ai margini della società in insediamenti informali, nelle città o in campagna. Luoghi in cui dominano precarie condizioni igienico-sanitarie e disagio abitativo. Non esistono infatti disposizioni specifiche per queste persone nei decreti che vengono sfornati con estrema frequenza da Palazzo Chigi. La Cgil chiede quindi “l’allestimento o la requisizione di immobili” per accoglierli. Le risorse necessarie “per eventuali interventi di rifacimento e adeguamento degli immobili requisiti” potrebbero essere trovate grazie alla “dotazione del Piano triennale contro lo sfruttamento e il caporalato”.

Tra le situazioni più critiche c’è sicuramente quella della Piana di Gioia Tauro. Per fare fronte all’emergenza Covid-19, nei giorni scorsi, sono state già adottate misure per prevenire il contagio nella nuova tendopoli di San Ferdinando. “All’esterno è stata allestita una tensostruttura per isolare eventuali casi di contagio, e preparato un registro per monitorare eventuali arrivi dalle zone a locale – racconta Celeste Logiacco, segretaria della Cgil locale -. Nei giorni scorsi sono stati anche distribuiti gel disinfettante, guanti e mascherine, ed è stata effettuata la sanificazione dell'intera area”. Per quanto riguarda gli altri insediamenti presenti sul territorio, però, la situazione è molto diversa.

“Nella Piana di Gioia Tauto un contagio potrebbe tradursi in tensione sociale”

“Qui è molto difficile, se non impossibile, adottare misure essenziali per la prevenzione del contagio - continua Logiacco -. Come Cgil della Piana da subito ci siamo attivati, diffondendo tra i braccianti informazioni nei vari accampamenti, distribuendo gel disinfettante e guanti”. Ma senza un’azione coordinata da parte del governo e dalla regione è molto difficile fare di più.“C’è bisogno di sostegno alle amministrazioni comunali – conclude Logiacco -, perché qui dove spesso l’accesso alle cure mediche non è garantito, quindi le conseguenze di un contagio potrebbero facilmente tradursi in tensione sociale”.

SOLIDARIETÀ​ INFORMALE
Nonostante le carenze nell’azione delle istituzioni, così come nella Piana di Gioia Tauro, in tutta Italia sono proprio sindacati e associazioni ad assumersi l’onere di prevenire il rischio contagio. E’ il caso di Emergency, al centro di sterili polemiche nei giorni scorsi, che oltre a lavorare all’allestimento di un ospedale da campo a Bergamo e alla protezione dal contagio del personale del policlinico di Brescia, sta collaborando con il comune di Milano per consegnare beni di prima necessità agli over 65, e per prevenire il contagio nelle strutture di accoglienza. Medici senza frontiere sta operando allo stesso modo nel lodigiano, mentre a Roma, in Toscana e in altri territori, proseguono le attività di screening e prevenzione di Medu (Medici per i diritti umani), che distribuisce mascherine a homeless e abitanti di insediamenti precari. “Solo a Roma – racconta il coordinatore generale Alberto Barbieri – ci sono 16.000 cittadini che vivono in condizioni di precarietà. Noi assicuriamo un servizio di triage telefonico, di supporto psicologico a distanza e abbiamo attivato un intervento di prevenzione negli insediamenti precari. In questo momento stiamo seguendo oltre tremila persone vulnerabili”.

In tutta Italia sono sindacati e associazioni a cercare di prevenire il contagio

C’è poi chi continua a lavorare, anche se oggi con maggiore difficoltà, in progetti di solidarietà. Come l’associazione Nonna Roma che in diversi municipi della Capitale, insieme ad altre realtà, si è messa a disposizione di chi “non riesce a soddisfare i più elementari bisogni come far la spesa o acquistare i farmaci: anziani, persone immunodepresse o con problemi respiratori”. Vista l’emergenza sanitaria, Nonna Roma ha rimodulato il suo “pacco alimentare”, attivando il porta a porta e “garantendo piena sicurezza ai volontari e a chi ha bisogno di aiuto”. Oppure come IndieWatch, che ha lanciato il progetto Ekoub. “Da qualche giorno - affermano dall’associazione - continuiamo a ricevere richieste d’aiuto da parte di persone che in passato abbiamo accompagnato per un tratto di strada. Ci chiedono un sostegno concreto per acquistare beni di prima necessità, pannolini o farmaci”. Non trovando sponda nelle istituzioni, IndieWatch ha creato “un gruppo di sostegno locale con legami solidali”. Non si tratta di una semplice raccolta fondi, ma di “uno scambio che possa sostenere l’autonomia delle persone”, “un sistema che al denaro risponderà diversamente, secondo le disponibilità dei membri del gruppo”.

Anche esperienze come quelle del gruppo solidale CiancArìa contribuiscono a far fronte a una situazione che si fa col passare die giorni sempre più complessa. In un casale di Aprilia, in provincia di Roma, si stanno accogliendo migranti usciti dai Cpr e senza fissa dimora, che in questo momento sarebbero maggiormente esposti al contagio. “CiancArìa fa parte della rete internazionale delle fattorie sociali Woof – spiega Emanuele Petrella, che gestisce il progetto Siproimi Well@home - e presto apriremo altre due sedi, una a Roma al Laurentino 38, e un’altra nel paesino di Ornaro, in provincia di Rieti. Sono esperienze di accoglienza vera, non finanziata e partecipativa, che contribuiscono alla valorizzazione dei beni comuni. In un periodo come questo, diventano ancora più importanti”.

“L’emergenza sanitaria – conclude Giuseppe Massafra - è un’occasione per dire che il sistema dell’accoglienza diffusa, come dimostrano anche tutte queste esperienze, resta il più efficace. Il coronavirus ha enfatizzato dei problemi che, ancora un volta, riguardano non solo i migranti, ma tutti i più deboli. In questi giorni ce ne si rende conto molto di più, ma le criticità del sistema erano evidenti già prima della pandemia”.