Gli ultimi due decreti emanati dal governo per contenere l’epidemia del Coronavirus sono arrivati nella tarda serata del 9 e dell'11 marzo. Sono i più energici di sempre, e chiudono l’Italia, trasformandola di fatto in un’unica, enorme “zona rossa”. L’obiettivo dichiarato è quello di contenere il contagio, o meglio di rallentarlo, per non permettere al virus di arrivare troppo presto e in maniera troppo massiccia al Sud. A rischio, oltre alle vite di molti cittadini, c’è la tenuta dell’intero Sistema sanitario nazionale.

“Il Meridione, al momento, non sarebbe in grado di reggere un impatto come quello che ha subito la Lombardia. Se invece il Coronavirus dovesse arrivare in maniera più lieve, probabilmente la capacità di resilienza dei sistemi sanitari regionali potrebbe essere sufficiente. Per questo si sta cercando di frenare la diffusione con misure straordinarie, che forse andavano prese anche prima. È una lotta contro il tempo”. A dirlo a rassegna.it è Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione indipendente Gimbe, che si occupa di attività di formazione e ricerca in ambito sanitario.

LA SCURE SULLA SANITÀ
L’epidemia, infatti, ha finora avuto maggiore diffusione in regioni in cui la sanità rappresenta un’eccellenza nazionale. Lo conferma l’ultima griglia Lea, la classifica con cui il ministero della Salute monitora il livello di qualità delle cure. Il Veneto è la realtà territoriale che assicura meglio di tutti i livelli essenziali di assistenza, le prestazioni sanitarie garantite ai propri cittadini. Poi viene il Piemonte, ma l’Emilia Romagna e la Lombardia sono molto vicine. Il Sud invece resta lontano. Calabria e Campania sono in coda.

L’onda del contagio va insomma a impattare su un sistema sanitario non certo omogeneo sull’intero territorio nazionale, e già fortemente provato da un decennio di tagli alle risorse. Secondo un rapporto pubblicato in tempi non sospetti (settembre 2019) proprio dalla Fondazione Gimbe, negli ultimi 10 anni i mancati aumenti al finanziamento del Ssn a carico dello Stato valgono circa 37 miliardi di euro. In valori assoluti, in realtà, tra il 2001 e il 2019 (fatta eccezione per il 2012 e il 2015) il finanziamento a carico dello Stato è sempre cresciuto, passando da 71,3 miliardi a 114,5 miliardi di euro, ma con un aumento medio inferiore a quello già minimo dell’inflazione di questi anni. Gli aumenti alla sanità pubblica quindi sono stati ogni anno minori rispetto a quelli del bilancio precedente.


Trend della spesa sanitaria pubblica in Italia (Fonte: Fondazione Gimbe)

Una scure bipartisan sulla sanità che è durata anni, dal ministro Renato Balduzzi del governo Monti fino alla pentastellata Giulia Grillo, che ha preceduto Speranza. E che ha portato nel 2018 il nostro Paese a destinare risorse pubbliche per un valore pari al 6,5 per cento del Pil, molto minore rispetto a Germania (9,5), Francia (9,3) e Regno Unito (7,5). Già nel 2010, la sanità in Italia pesava per il 7 per cento del prodotto interno lordo.

Secondo l’ultimo bollettino della Protezione civile, il 16% dei pazienti ricoverati in ospedale per il coronavirus ha bisogno di un posto letto che garantisca una macchina per respirare. Mentre scriviamo (11 marzo) sono 877, 144 in più rispetto a lunedì. Il 2 marzo erano 166.

"Per anni abbiamo tenuto in vita il sistema sanitario solo con un filo d’ossigeno"

Stando all’Organizzazione mondiale della sanità, però, il nostro Paese in passato ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, proprio quelli che mancano, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015 che ci proietta in fondo alla classifica europea. In testa c’è la Germania con 621 posti, più del doppio. Esiste poi una notevole variabilità di numeri a seconda delle regioni prese in esame. Secondo i dati del ministero della Salute, nel 2017 i posti nei vari reparti delle strutture pubbliche andavano dai 3,9 per 1.000 abitanti del Molise (prima in classifica ma con pochi cittadini residenti) ai 2 per 1.000 abitanti della Calabria, molti residenti e ultima in graduatoria.

“Per anni abbiamo tenuto in vita il sistema sanitario solo con un filo d’ossigeno – spiega Cartabellotta –. Otto miliardi l’anno sono molto meno dell’inflazione. I tagli sono stati enormi e con l’obiettivo di mantenere l’equilibrio finanziario si è ridotta l’assistenza ai cittadini. Ora ci troviamo di fronte a un’emergenza storica con situazioni diverse tra regione e regione. Stanno peggio sicuramente quelle che hanno a che fare con i piani di rientro finanziario”. Cioè tutte le regioni del Sud, dal Lazio in giù, escluse solo Sardegna e Basilicata. Regioni che, tra l’altro, hanno fatto registrare nel periodo 2003-2006 i tagli maggiori, con un tasso di crescita medio annuo della spesa sanitaria addirittura negativo (-0,1%) tra il 2012 e il 2018.

Adempimenti Lea (Fonte: Fondazione Gimbe)

IL SUD CHE PREOCCUPA
“La situazione è preoccupante soprattutto al Sud”, conferma Michele Vannini, che per la Fp Cgil nazionale si occupa proprio di politiche della Salute. I famosi 5.100 posti letto in terapia intensiva di cui tanto si è parlato in questi giorni non sono diffusi in maniera uniforme sul territorio nazionale. “L’ospedale civico di Palermo, ad esempio, ne ha solo 6 e sono già tutti occupati. Nell’intera piana di Gioia Tauro ce ne sono soltanto 23”. Se il virus dovesse diffondersi in maniera massiccia e veloce potrebbe essere una catastrofe. “Tra l’altro, in Italia le terapie intensive – continua Vannini – erano già sature al 70-80% prima del coronavirus. Perché c’erano e ci sono persone che soffrono di altre patologie. Non è che la gente ha smesso di avere gli infarti. Ce li ha lo stesso, ma magari non viene messa in terapia”.

Una questione sanitaria meridionale è confermata anche dal nuovo rapporto “Crea Sanità” dell'Università di Tor Vergata di Roma. Sono infatti sei, e tutte del Sud, "le regioni in area critica" per quello che riguarda le performance dei servizi sanitari regionali: Puglia, Sicilia, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna. Il rapporto misura il divario nel sevizio sanitario attraverso la misurazione della percentuale di appropriatezza dell'assistenza, esiti delle cure, equità di accesso, innovazione e situazione finanziaria. I valori del Sud non superano il 31%. Lombardia, Emilia Romagna e Veneto oscillano tra il 57 e il 61%. Anche il Programma nazionale esiti curato dall’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) conferma questo dato: in Italia abbiamo servizi sanitari di qualità superiore al centro-nord e una sanità di qualità inferiore, a volte anche molto inferiore, nel Mezzogiorno.


 Indice della performance sanitaria (Demoskopika) 

Non a caso, quindi, le misure straordinarie annunciate dal ministro della Salute Speranza in Consiglio dei ministri lo scorso 7 marzo, e dallo stesso presidente Conte nella conferenza stampa di due giorni dopo, vanno in controtendenza rispetto alla parola “tagli”. Prevedono nuove assunzioni, l’incremento di aree di emergenza all’interno degli ospedali e l’acquisto delle apparecchiature necessarie per contrastare gli effetti del coronavirus. Uno degli obiettivi è aumentare del 50 per cento il numero dei posti letto in terapia intensiva. Resta da vedere come queste misure verranno recepite nelle varie regioni.

IN CALABRIA, AD ESEMPIO
È una di quelle in piano di rientro, commissariate dal ministero. Qui i posti in terapia intensiva sono solo 104 e la Regione, insieme all’unità di crisi, ha deliberato la richiesta di aumentarli fino a 140. Ora le aziende ospedaliere si devono attrezzare per rimodulare le strutture, accorpando i reparti, spostando letti e riadattando alcune sale operatorie. “Sta succedendo sia all’ospedale metropolitano di Reggio Calabria sia in quello di Cosenza, si stanno anche attivando 20 posti a Vibo Valentia – racconta Alessandra Baldari della Fp Calabria –. In più sono state anche chieste maggiori assunzioni fuori dal commissariamento. Ma servono anche interventi per altri reparti. Prima del coronavirus avevamo solo 80 posti in malattie infettive e 60 per pneumologia nell’intera regione”.

 “In Calabria avevamo difficoltà a gestire l’ordinario, ora i provvedimenti potrebbero anche essere insufficienti”

In Calabria “si aveva difficoltà a gestire l’ordinario”, ora la preoccupazione di Baldari è che “questi provvedimenti siano insufficienti, anche se a oggi non possiamo saperlo”. Per ora quello che è certo è che l’azione emergenziale si sta muovendo con “estrema lentezza”. Le decisioni sono state prese tre giorni fa, “ma ancora ieri all’ospedale di Reggio non s’era mossa foglia. Al momento siamo a 18 casi positivi, se aumentassero da un giorno all’altro, cosa potrebbe succedere? Bisogna agire in fretta”.

Un grido di allarme arriva anche dalla Piana di Gioia Tauro, dove per 160 mila abitanti sono in funzione appena due dei sei ospedali presenti sul territorio: quelli di Polistena e di Gioia Tauro. Gli altri sono stati chiusi per rientrare dal debito. “Qui, dopo la chiusura dell’ospedale di Cittanova, non esiste più nemmeno un reparto di malattie infettive – ci dice Patrizia Giannotta della Fp Cgil della Piana –, e col blocco del turn-over e le necessità di rientro dal debito, il personale è ormai ridotto all’osso. È impossibile per noi gestire un’emergenza come il coronavirus”.

"Nella Piana per ora è impossibile gestire l’emergenza”

Finora, poi, “nessun reparto è stato provvisto di mascherine da utilizzare durante i turni di servizio. Soltanto i pronto soccorso sono stati dotati di semplici mascherine da sala operatoria”. E ancora, “manca il personale per prevedere eventuali aree di isolamento e terapia intensiva”, e mancano “aree di decontaminazione”. “Siamo preoccupati – conclude – perché questo territorio si appresta ad affrontare un’emergenza senza gli strumenti e il personale necessari”.

Mimma Di Certo è un medico, fa la cardiologa all’ospedale di Gioa Tauro: “Qui abbiamo sospeso tutte le attività ordinarie e, come ci ha indicato la Regione ieri, stiamo affrontando solo le urgenze per evitare assembramenti in ospedale. Forse a breve il nuovo reparto di chirurgia verrà destinato ai malati di coronavirus”. La situazione però è davvero difficile da gestire: “In pronto soccorso oggi ci sono solo tre colleghi, perché un quarto è in quarantena. Fanno turni disumani, ci mancano addirittura le mascherine. Se dovesse arrivare un’ondata di contagi avremmo grandi difficoltà, perché non abbiamo rianimatori e non c’è un reparto di terapia intensiva. Il reparto di malattie infettive più vicino è quello di Reggio”.

"Siamo figli di un Dio minore, siamo stati abbandonati"

Mimma, medico calabrese oggi si sente davvero “figlia di un Dio minore”: “Siamo abbandonati come se non facessimo parte di questo Paese. È da tanto però che siamo in difficoltà: commissariati, sempre meno e sempre più vecchi. Con quota cento c’è stato un altro fuggi fuggi. Oggi parlavo con dei colleghi del rischio di un’epidemia seria, siamo tutti seriamente preoccupati perché non avremmo  strumenti per affrontarla”.

IL LAVORO CHE NON C'È PIÙ
D’altro canto, uno dei centri di costo che subito maggiori tagli in sanità negli ultimi anni è stato proprio il personale. I finanziamenti sono stati progressivamente ridotti, come evidenzia anche l’ultimo monitoraggio annuale sulla spesa sanitaria del ministero dell’Economia. Si legge: “La spesa per i redditi da lavoro dipendente rappresenta, nel 2018, il 30,8% della spesa complessiva. Tale percentuale risulta sensibilmente ridotta rispetto a quella del 2002 (36,9%)”. Una percentuale che negli ultimi dieci anni è diminuita in maniera esponenziale. Sono gli effetti di un decennio di blocco del turn-over nelle zone in maggiore difficoltà, come la Calabria. Lo dice esplicitamente anche il Mef.

Uno dei centri di costo che ha subito tagli maggiori è stato il personale

Il tutto ha portato a un risparmio di almeno 1 miliardo sui costi del personale, tra medici e infermieri, visti per anni come uno spreco. I dati del Conto annuale dello Stato confermano che il personale del servizio sanitario nazionale è passato da 689.873 nel 2008 a 647.048 nel 2017, ultimo dato disponibile. Sono svaniti nel nulla più di 40 mila infermieri, medici e operatori. Mentre l’età media dei lavoratori è aumentata, passando da 43,5 nel 2001 a 50,7 nel 2017. A stare peggio sono sopratutto gli infermieri. Il rapporto “State of Health in the EU: Italia, Profilo della sanità 2019”, pubblicato lo scorso dicembre dall’Ocse, dalla Commissione Ue e dall’Osservatorio europeo sui sistemi e le politiche sanitarie, ci fa sapere che il nostro Paese oggi impiega più medici, ma meno infermieri rispetto alla media europea: 5,8 ogni mille abitanti, rispetto agli 8,5 comunitari.“C’è stata una fortissima restrizione del turn-over – spiega ancora Michele Vannini –, specie nelle regioni in piano di rientro. Sopratutto nel Sud c’era una grossa difficoltà già prima dell’epidemia, come in Calabria”.


State of Health in the EU: Italia, Profilo della sanità 2019 (fonte: Ocse-Ue)

Non a caso la Fp Cgil circa un anno e mezzo fa ha lanciato un piano di assunzioni straordinarie, chiedendo l’ingaggio di almeno 75 mila infermieri e 20 mila medici, non solo per garantire il ricambio, ma per rilanciare il servizio pubblico. “L’ammirevole attenzione di oggi dell’opinione pubblica sulle condizioni di lavoro degli infermieri italiani – racconta Stefano Cecconi, che per la Cgil nazionale si occupa di Sanità – da una parte fa un po’ rabbia, perché è tardiva e si tratta di situazioni che fatte le debite proporzioni vedevamo anche prima. D’altra parte ci riempie di orgoglio, perché mostra la dedizione di questi lavoratori”. Intanto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto per sbloccare le assunzioni sanitarie in seguito all'emergenza. Saranno stanziati 660 milioni per creare 20 mila posti per medici, operatori socio-sanitari e infermieri. Le selezioni avverranno per titoli e per colloquio. “Naturalmente non si può riorganizzare la Sanità in base alle emergenze – continua Cecconi –. Ora bisogna affrontare la situazione con misure eccezionali, senza allarmismi. Poi affrontare in modo sistematico, il gap che c’è. L’urgenza deve tener conto che c’è un Sud meno dotato del Nord”.

Cgil e Fp hanno anche lanciato una petizione a sostegno degli operatori del sistema sanitario

Per questo Cgil e Fp hanno anche lanciato una petizione a sostegno degli operatori del sistema sanitario nazionale, per rivendicare nuove assunzioni e risorse.

TAMPONARE L’EMERGENZA
Oggi, in ogni caso, l’obiettivo è tamponare l’emergenza, sopratutto al Sud. Su questo sono tutti d’accordo. “Si sta agiendo in fretta – commenta Nino Cartabellotta – ma specialisti e posti letto di terapia intensiva non si creano in quattro e quattr’otto. Bisogna rallentare la diffusione non tanto per la pericolosità del virus, quanto per sostenere e dare fiato al sistema sanitario che in Meridione farà più fatica. Le misure di contenimento servono a guadagnare tempo per organizzarsi. Solo la responsabilità individuale permetterà di salvare il sistema. Se dovessero arrivare 400 persone in terapia intensiva in Sicilia o in Calabria la mortalità oggi sarebbe altissima”.

“Solo la responsabilità individuale permetterà di salvare il sistema”

“Bisogna organizzare percorsi di convergenza nelle regioni più in difficoltà – conferma Stefano Cecconi –. Ce lo dicono i piani di rientro e risultati della griglia Lea. Il Sud ha una difficoltà vera che va recuperata. C’è un gap, che spesso è accorciato grazie all’impegno e alla professionalità di chi ci lavora. Il Nord si è dimostrato un’eccellenza, si soffre ma si tiene botta. Ora è il momento di difendere la sanità del Sud”. “Il sistema sanitario italiano, nonostante tutto, è uno strumento eccezionale – conclude Michele Vannini –. Siamo i quarti al mondo in termini di efficienza. Oggi siamo di fronte a una situazione straordinaria, e non dobbiamo mandare all’aria il sacrificio dei lavoratori. Dobbiamo fare in modo che, quando tutto sarà passato, questi giorni non siano dimenticati. Serve battersi ed essere pronti ad affrontare nuove emergenze, magari con un po’ di omogeneità sull’intero territorio nazionale. Ora tocca a noi salvare il sistema sanitario”.

AGGIORNAMENTO
L'11 marzo alle 21:10, la presidente della Regioie Calabria, Jole Santelli, ha pubblicato sul suo profilo Facebook  istituzionale la notizia dell'attivazione del piano di emergenza Coronavirus regionale. Il piano prevede "l’attivazione di 400 posti letto di terapia intensiva e subintensiva per le aree nord, centro e sud della regione". 90  posti saranno attivati "nelle strutture di Cosenza, Castrovillari, Rossano, Cetraro, Azienda Ospedaliera Pugliese Ciaccio di Catanzaro, Mater Domini di Catanzaro, Lamezia, Crotone, Reggio Calabria, Polistena e Vibo Valentia". Ulteriori 310 posti verranno così attivati: "110 nell’area nord nelle strutture di Paola, Rogliano e Rossano, 100 posti per l’area centro nelle strutture di Germaneto e Tropea. Nell’area sud saranno attivati 100 posti, nelle strutture di Gioia Tauro, Locri, Melito Porto Salvo".

"È stato avviato - scrive ancora Santelli - il piano straordinario per le assunzioni di personale medico e personale sanitario non medico a tempo determinato, finalizzato alla gestione dell’emergenza. Già domani sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss. L’accettazione degli incarichi è valutata come titolo di carriera nei concorsi per assunzioni a tempo indeterminato".