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“Non hai diritto di dire ai ragazzini “andrà tutto bene!”. Devi essere loro di supporto, non fare promesse vane”. Padre Andrij ce lo dice mentre si muove instancabile tra corridoi di metallo e lamiere. Qui, in uno dei principali campi profughi di Leopoli, quello di Mariapolis, vivono 971 persone che cercano ogni giorno di ricomporre una vita possibile in condizioni che sfidano ogni idea di normalità. Tra di loro 231 bambinə fino a 17 anni.
Siamo nel quartiere di Sykhiv, dove grandi viali si perdono in periferie grigie, qualche chilometro fuori dal centro della piccola Parigi dell’Est, come viene chiamato uno dei capoluoghi ucraini più distanti dai punti di contatto con le linee nemiche. Il campo è fatto di container a due piani, costruiti con l’aiuto della cooperazione polacca: strutture ordinate ma essenziali, strette come scatole. Si vive in un rettangolo d’aria così angusto che persino il respiro sembra sottrarre spazio. Don Andrij si occupa dell’accoglienza e del sostegno spirituale degli sfollati.
Sempre indaffarato, sempre in movimento: una parola di conforto, un problema da risolvere, una distribuzione di aiuti da organizzare. Conosce tutti per nome e, pur nella fatica quotidiana, conserva uno sguardo gentile che sembra tenere insieme i pezzi fragili di questa comunità forzata, senza distribuire pensieri irrealizzabili.
“Sono salesiano ed ero responsabile dei ragazzi che intendevano intraprendere la carriera ecclesiastica, ma con lo scoppio della guerra sono stato chiamato qui – ci racconta -. All’inizio caricavo e scaricavo pacchi. Quando è stato aperto il campo, ho capito che il mio dovere era restare: oltre alla preghiera, serviva aiutare concretamente chi era in difficoltà. Don Bosco avrebbe fatto lo stesso”.
Quando gli chiediamo quali siano le difficoltà, Padre Andrij riflette un istante e poi risponde: “Una delle difficoltà maggiori è riuscire a dare il supporto giusto. Ho dovuto imparare molto dai ragazzini che vivono qui: il coraggio, la capacità di aggrapparsi alla vita nonostante siano abbattuti o terrorizzati. E nonostante tutto, continuano a vivere”.
Mentre parliamo, due bimbe si avvicinano con l’aria impaziente e gli chiedono quando sarebbero partite per i campi in montagna. Padre Andrij sorride e ci spiega quanto sia importante offrire loro anche solo una settimana di svago, lontano dal peso quotidiano della guerra. Per questo ha organizzato delle settimane di vacanza a circa duecento chilometri da lì, tra le montagne. Le due piccole sarebbero partite il lunedì successivo alla nostra chiacchierata, con negli occhi già la promessa di un po’ di libertà.
Insieme a noi, nel campo profughi, gli attivisti e le attiviste di Mediterranea Saving Humans. L’ong, nata tra le onde per salvare vite migranti, ha allungato le rotte della propria solidarietà oltre il Mediterraneo. Qui, in Ucraina, dove la guerra è diventata paesaggio quotidiano, ma anche in West Bank, dove la resistenza è un gesto ostinato e silenzioso, Mediterranea porta la stessa idea radicale: restare umanə. Con la diciannovesima Staffetta umanitaria, alla quale partecipiamo, volontari e attivisti attraversano confini e indifferenze, caricando furgoni di aiuti, portando la musicoterapia di Music&Resilience e lo staff sanitario che segue dal principio le persone più fragili.
Dopo la tappa al centro profughi di padre Andrij, ci spostiamo verso il centro di Leopoli. In seguito all’invasione russa su larga scala del 2022, il tempo in città sembra scorrere in superficie, mentre sotto si agitano dolore e resistenza. La città, avvolta da una calma apparente, vive sotto legge marziale, tra sirene d’allarme che spezzano la quotidianità e il peso silenzioso dell’assenza. Con gli uomini al fronte o nascosti per sfuggire alla leva, sono soprattutto le donne a sorreggere la fragile impalcatura della normalità, ma traspare una stanchezza collettiva: un dolore sommesso, eppure tangibile, che si intreccia alla determinazione silenziosa di chi continua, ostinatamente, a resistere.
Leopoli è diventata rifugio per circa 200mila sfollati interni. Molti di loro, pur strappati alla propria casa e alle proprie abitudini, sono riusciti a ricostruirsi forzatamente una nuova vita. Come Yuriy, ex docente di lingua italiana presso l’Università di Kiev, che oggi dirige la comunità di Sant’Egidio. È lui stesso a ricordare quanto conti non solo il gesto materiale ma anche quello umano: “Sappiamo perfettamente che portare un pacco di pannolini dall’Italia è più costoso rispetto alla possibilità di comprarlo qui; un pacco di pannolini ci è di grande aiuto, ma il vostro assume un valore inestimabile perché ce lo portate con il sorriso”.
Ma assistenza e solidarietà concreta qui si fanno anche “mestiere”, attraverso corsi di formazione per ripartire. Nel cuore ferito dell’Ucraina, dove la guerra ha trasformato la quotidianità di milioni di persone, la resistenza non si misura solo con le armi. Si misura anche imparando un nuovo impiego, per tornare a sperare in un futuro diverso.
È questo l’obiettivo dei corsi professionali promossi dai Salesiani di Don Bosco e dal Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), un’organizzazione non governativa impegnata nella cooperazione e nella formazione alla cittadinanza globale. A Leopoli, presso il Centro Professionale Salesiano “Don Bosco”, vengono organizzati corsi destinati in particolare alle persone sfollate interne - donne e uomini costretti a fuggire dalle zone più martoriate del conflitto.
I corsi, finanziati da donatori privati e programmi internazionali, spaziano dalla panificazione alla programmazione informatica, passando per la pasticceria, la cucina professionale, il design d'interni e la meccanica automobilistica. Per alcune persone è un’opportunità di aggiornare competenze già acquisite, per altre significa imparare da zero e costruirsi una nuova identità lavorativa. Al termine dei corsi viene rilasciato un certificato, piccolo ma fondamentale strumento per affrontare un mercato del lavoro frammentato e incerto.
Tra i progetti più attivi c’è il programma S.u.p.e.r. (Support ukrainian population for emergency and rehabilitation), che ha avviato corsi specifici per le donne sfollate ospitate nel campo “Mariapolis”: panificazione, cucina di base, pasticceria, cucina professionale. Un’occasione non solo di formazione, ma di autonomia e dignità. Accanto al progetto S.u.p.e.r., il programma Jew (Jugend Eine Welt), sostenuto dal ministero degli Affari sociali austriaco, offre corsi di cucina, servizio bar e programmazione IT, puntando al reinserimento economico delle famiglie sfollate.
Partecipano anche ong italiane attraverso il progetto “Comitato”, con percorsi formativi che spaziano dalla cucina alla programmazione informatica, fino al design d'interni e alla meccanica automobilistica. Centinaia le persone coinvolte, molte delle quali provenienti dal campo Mariapolis.
Alla fine della nostra chiacchierata con padre Andrij con un po’ di esitazione gli chiediamo quali siano, oggi, le sue prospettive future e quelle dei ragazzi. Ci sorride con quella calma che sembra aver imparato dalla necessità di non farsi travolgere dall’incertezza. “La mia prospettiva futura è l’obbedienza - risponde –. Andrò dove mi manderà il mio superiore”. Poi si ferma un istante, come a pesare le parole, e aggiunge: “Per i ragazzi, invece, molti stanno studiando qui e termineranno qui il loro percorso. Ma la grande maggioranza sogna di tornare a casa propria, anche se quella casa, fisicamente, non esiste più”.
In un Paese dove l’invasione russa ha disseminato precarietà e disperazione, questi corsi rappresentano molto più di un semplice percorso educativo. Sono un atto di resistenza civile, un investimento collettivo nella ricostruzione di vite e comunità. Dove le bombe distruggono, la formazione e la solidarietà provano a ricostruire.
(foto di Stranges)