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La telefonata che non vorresti mai ricevere, il dolore per la perdita, la rabbia, l’ingiustizia… ma anche la reazione e l’impegno, per sé stessi e per gli altri. Cinque storie-simbolo di familiari di vittime del lavoro, che hanno trasformato il lutto in motore di cambiamento. Sono i cinque episodi di Morire di lavoro. Le storie di chi resta. Con questo podcast, realizzato per Radio Popolare, Massimo Alberti, giornalista e conduttore radiofonico, ha vinto la seconda edizione del Premio Bruno Ugolini.
Massimo Alberti, che significato ha per lei aver ricevuto un premio intitolato alla memoria di Bruno Ugolini?
Il lavoro di Bruno è stato un esempio per tutti, da cui abbiamo imparato tantissimo. Spesso si dice che il giornalismo deve essere imparziale. Io penso che debba essere indipendente, ma non imparziale, e che si possa essere professionali pur scegliendo da che parte stare. Questo era ciò che faceva Bruno, che aveva scelto di stare dalla parte di chi lavora. Per noi la sua attività è stata un grandissimo insegnamento. Aggiungo anche un piccolo particolare: Bruno era bresciano, come me. Brescia è una delle province che ancora mantiene un tessuto industriale e operaio molto solido. Ciò mi rende, se possibile, ancora più orgoglioso di questo premio.
Come ha scelto le storie e in che modo si è avvicinato ai protagonisti, i familiari delle vittime?
Devo ringraziare moltissimo l'Associazione familiari delle vittime del lavoro di Medicina Democratica, perché l'idea di raccontare queste storie è nata da una collaborazione con loro e con la presidente Lalla Quinti, che è una delle protagoniste. In Italia ci sono decine di piccole e piccolissime associazioni, che nascono da esperienze di dolore, di lutto, di perdita di un familiare o di un amico sul lavoro. Queste realtà lavorano sul territorio, ma non sempre sono in rete e si conoscono tra di loro, anche se fanno un lavoro importantissimo di divulgazione nelle scuole e sul territorio, per cercare di tenere alta la sensibilità su questo tema. Il lavoro che fa Medicina Democratica cercando di tenerli in rete è importantissimo.
Molto interessante la scelta di utilizzare la prospettiva di chi resta, perché dà la misura di quanto una morte sul lavoro si porti dietro un carico emotivo, sociale, economico e giuridico notevole.
Sì, infatti. I protagonisti delle storie scelte hanno tutti trasformato un dolore e un lutto in un impegno sociale e civile, perché ciò non capiti anche ad altri. Attraverso le vicende personali ed il loro portato emotivo, raccontiamo cosa succede quando capita una morte sul lavoro, cosa significa fare i conti con un apparato giudiziario che troppo spesso non è all'altezza, che mette sullo stesso piano il singolo e l’impresa. Una disparità enorme di mezzi economici, ma anche una serie infinita di aspetti burocratici da gestire: Inps, Inail, risarcimenti. Occorre essere preparati, occorre avere un sostegno, perché da soli non ce la si fa.
Ogni storia svela cosa si nasconde dietro a un incidente sul lavoro, quali sono le modalità che poi portano all’esito tragico, e che si sarebbe potuto evitare.
Sì, per esempio la ricerca ostinata del profitto a tutti i costi, come nel caso di Luana D'Orazio, per cui si tolgono i dispositivi di sicurezza alle macchine. O il prolungamento esasperato della vita lavorativa. O, ancora, il fatto che le imprese in passato già coinvolte in vicende di sicurezza sul lavoro, poi continuino tranquillamente a operare come prima. Ma soprattutto, la tendenza a scaricare le responsabilità dell’accaduto sui lavoratori, che non hanno saputo proteggersi.
Non hanno saputo o non hanno potuto?
Esattamente. Molti lavorano in condizione di totale precarietà, e se provano a opporsi a determinate situazioni rischiano il posto. E quando hai una famiglia e devi portare lo stipendio a casa, alla fine decidi di mettere a rischio anche la tua vita. Quindi è sempre una questione di rapporti di forza tra lavoratore e impresa. Io vorrei che l’ascolto del mio podcast suscitasse non solo commozione, ma anche rabbia e la voglia di reagire.
La rabbia, la voglia di reagire, ma forse anche una sorta di stupore. Non siamo forse troppo abituati a pensare – sbagliando – che situazioni di questo tipo siano l’eccezione?
C'è un rischio nel raccontare la singola storia, ed è quello che la si possa considerare un unicum, un caso limite. Come se si potesse commentare “beh, non tutte le imprese rimuovono i dispositivi di sicurezza, non tutte le imprese utilizzano un macchinario vecchio, non tutte le imprese fanno lavorare uno studente che dovrebbe essere in alternanza scuola-lavoro”. E però, se noi mettiamo a confronto vicende diverse, ci rendiamo conto che sono tanti gli elementi ricorrenti. Questo ci permette di mettere in evidenza che la sicurezza sul lavoro è una questione sistemica, non un caso isolato di negligenza. I controlli sono pochi, gli ispettori sono pochi e quando, al contrario, ci sono i controlli, gli incidenti non capitano. Noi invece dobbiamo sentirci fortunati quando torniamo a casa vivi la sera.
La sicurezza sul lavoro non è, però, una questione a sé. È il prodotto complessivo dei rapporti di forza tra lavoratori e imprese.
Il problema della sicurezza è strettamente legato a come lavoriamo, al maggiore livello di precarietà, ai salari bassi. Pensiamo alla legislazione sul lavoro, dal Pacchetto Treu al Jobs Act, che ha spostato i rapporti di forza sbilanciandoli sempre più dalla parte dell'impresa. È significativo, per esempio, come in questi anni si siano moltiplicate le iniziative che le aziende prendono contro le contro gli Rls, i rappresentanti per la sicurezza sul lavoro. Ci troviamo di fronte a situazioni limite, in cui il figlio del proprietario è anche il rappresentante per la sicurezza, un chiaro conflitto di interesse. Anche questo fa parte di una questione generale sistemica, che ha a che fare con la cultura della sicurezza sul lavoro, che manca.
























