La Global Sumud Flotilla è in navigazione verso Gaza. Porta, via mare, aiuti umanitari ai civili della Striscia con l'obiettivo di rompere l’assedio navale imposto da Israele. Dopo aver raccolto un’enorme quantità di alimenti destinati ai gazawi, e in pieno accordo con le altre associazioni, l’ong genovese Music For Peace ha invece deciso di rientrare, per avviare le procedure necessarie all’apertura di un un altro corridoio umanitario, stavolta via terra. Si parla di circa 500 tonnellate di generi di prima necessità, già impacchettati e pronti per essere spediti.

È carestia

D’altronde, di aiuto Gaza ha davvero bisogno. La grave carestia che la sta colpendo è stata infatti ufficializzata già il 22 agosto scorso. Quel giorno l’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), un consorzio di diverse organizzazioni che si occupa di rilevare le situazioni di mancanza di cibo nel mondo lo ha certificato con un rapporto di 59 dettagliatissime pagine.

Il Governatorato di Gaza da un mese è già in Fase 5 (Famine), a soffrirne sono oltre 640mila persone. Almeno il 20% delle famiglie è senza accesso al cibo, il 30% dei bambini è malnutrito, si registrano due morti di fame al giorno ogni 10mila abitanti. Numeri che non lasciano spazio a nessuna interpretazione.

La Fao, l’Unicef, il World Food Programme delle Nazioni unite e l’Organizzazione mondiale della sanità sono infatti d'accordo, e hanno diffuso un appello congiunto, chiedendo l’apertura immediata dei valichi, ingresso senza ostacoli per aiuti e carburante, cessate il fuoco umanitario. L’allarme è stato ribadito con parole durissime dall’inviato britannico Tom Fletcher, presidente della organizzazione no profit svedese Global Challenges Foundation: “La carestia di Gaza non è né naturale né inevitabile: è una carestia prevenibile e prevedibile”.

Negazione mediatica digitale

Il governo israeliano nega tutto, e per convincere l’opinione pubblica ha attivato una campagna mediatica digitale su vasta scala, assoldando una fitta rete di influencer: dal coach statunitense Jeremy Abramson al blogger Marwan Jaber, fino a Xavier DuRousseau, volto di Fox News. Sono stati tutti invitati e scortati dall’Idf, elmetti ben calcati sulla testa, nelle zone di confine della Striscia. L’obiettivo era mostrare il presunto “lusso quotidiano” dei gazawi.

Dietro, c’è la campagna istituzionale “Reveal the Truth”, coordinata dal Ministero israeliano per gli Affari della Diaspora, che li ha arruolati. Le stesse piattaforme social – Google e Meta – hanno ospitato campagne pubblicitarie a pagamento per milioni di dollari, con un messaggio chiaro: a Gaza non c’è carestia, i palestinesi mentono. La strategia, nota come “hasbara”, si basa su video a pagamento e siti web sponsorizzati che mostravano mercati alimentari e ristoranti, con l’obiettivo di presentare un'immagine di normalità. Questi annunci sono stati deliberatamente inseriti nei feed degli utenti in diversi Paesi. Ovviamente le uniche inchieste indipendenti, da France24 a Forbidden Stories, fino a studi di ong israeliane, hanno smontato pezzo dopo pezzo questo tipo di narrazione.

Il diritto internazionale

Ma come si fa a portare concretamente viveri e medicinali in un territorio investito da una tempesta di fuoco? Come si crea un corridoio umanitario sicuro? Dove passeranno la Gobal Sumud Flotilla e Music for peace? Per rispondere a queste domande bisogna fare riferimento al diritto internazionale umanitario, noto anche come “diritto di guerra” o “diritto dei conflitti armati”, un’insieme di norme che servono a tutelare le popolazioni in situazioni calamitose. La fonte primaria resta la Convenzione di Ginevra, poi ci sono una serie di risoluzioni dell’Onu che disciplinano gli interventi a favore dei civili “colpiti da eventi catastrofici”, disastri naturali o provocati dall’uomo come in questo caso.

Avalon/Sintesi
Avalon/Sintesi
Avalon/Sintesi

Il diritto conferma “la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità nazionale” degli Stati, quindi in prima battuta l’onere degli aiuti alle vittime di situazioni di emergenza resterebbe in capo alla nazione nella quale si verificano le catastrofi. O a chi la occupa in tempo di guerra. In casi particolarmente gravi anche le organizzazioni internazionali (solitamente le agenzie delle Nazioni unite) e le ong possono intervenire. La risoluzione A43/131 del 1988 conferma che è “indispensabile garantire un accesso alle vittime”. Per farlo, l’Assemblea generale Onu, con una seconda risoluzione (A45/100 del 14 dicembre 1990), ha proposto la creazione in caso di necessità di “corridoi umanitari”. Varchi lungo i quali potersi muovere in sicurezza per trasportare viveri e permettere l’evacuazione dei profughi. Il concetto di corridoio umanitario è stato poi confermato dalla risoluzione 688 del 5 aprile 1991.

A chi spetta?

Nel 2012 la Corte penale internazionale dell’Aja ha stabilito che Gaza, insieme alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, resta un “territorio occupato” da Israele. Questo significa che spetta a Tel Aviv non solo permettere l’ingresso degli aiuti, ma anche occuparsi in prima persona della loro distribuzione, se necessario con l’appoggio dell’esercito, sempre nel rispetto delle regole.

Israele, in realtà, sostiene di rispettare il diritto internazionale umanitario nelle operazioni condotte nella Striscia, ma nega che si tratti di un territorio occupato sin dal 2005, dopo il ritiro unilaterale. In questa chiave, il suo dovere sarebbe limitato a garantire il passaggio dei convogli umanitari. Le autorità israeliane hanno il diritto di controllare che nei carichi non ci siano armi o materiali bellici che possano finire nelle mani di Hamas. Nella pratica, però, non è possibile assicurare con certezza un controllo. Così Israele decide spesso e volentieri di bloccare gli aiuti. Lo ha fatto per ben undici settimane consecutive, da inizio marzo fino al maggio scorso, per poi aprire e chiudere più volte i rubinetti, a suo piacimento.

Secondo Marco Sassoli, professore di Diritto internazionale all’Università di Ginevra, intervistato da Medici senza frontiere, Israele sta violando il principio di proporzionalità: “Evitare la fornitura di viveri e altri beni essenziali ad Hamas, non è un vantaggio militare tale da giustificare la riduzione alla fame di due milioni di civili”. Insomma, affamare una popolazione vuol dire fare a pezzi il diritto internazionale umanitario. Per questo, molti osservatori hanno letto dietro queste decisioni una strategia militare ben precisa.

Hunger Games

La conferma che la gestione degli aiuti umanitari sia ormai di fatto diventata uno strumento politico-militare è arrivata a fine maggio scorso, quando Israele con il sostegno degli Stati Uniti ha affidato la distribuzione degli aiuti a una fondazione privata, la Gaza humanitarian foundation (Ghf), difesa da contractor militari. Qualche mese prima aveva messo fuorilegge l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, l’Unwra, alla quale fino a quel momento era affidata la fetta più grande della distribuzione. La Ghf, in realtà, avrebbe dovuto rimpiazzare completamente l’intera rete esistente, gestita da circa 200 organizzazioni internazionali.

Come hanno fatto notare sin dall'inizio molti osservatori, la Ghf è un'istituzione a dir poco opaca. Le sedi originarie erano a Ginevra, in Svizzera, e negli Stati Uniti, nel Delaware. Ma tuttora non si sa bene chi la finanzi, non c’è un sito web ufficiale, e molte informazioni non sono accessibili. Il primo direttore esecutivo dell'organizzazione è stato Jake Wood, un ex marine esperto di soccorso. Il 25 maggio 2025, Wood ha annunciato che si sarebbe dimesso perché non era possibile portare avanti i piani di Ghf “aderendo rigorosamente ai principi umanitari di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, che non abbandonerò”.

Nel luglio scorso, poi, l’Autorità federale svizzera di vigilanza ha annunciato che la filiale di Ginevra della Ghf sarà sciolta, “perché la fondazione non ha rispettato vari obblighi legali”. Intanto 170 ong internazionali ne hanno chiesto lo smantellamento, mentre una ventina di Paesi europei, tra cui Francia e Germania, hanno firmato una lettera in cui chiedono che gli aiuti siano nuovamente organizzati dall’Onu e dalle organizzazioni non governative.

Nonostante i reel prodotti dalla Ghf (anche con l’aiuto dell’Ia) per promuovere la sua attività e criticare ong e Onu, i suoi punti di distribuzione sono intanto diventati trappole mortali. Secondo i dati più recenti dell’Onu (diffusi dall'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari – Ocha), dall'istituzione del sistema di siti militarizzati al 17 settembre, almeno 2.319 persone in cerca di assistenza sono state uccise. 1.202 nei pressi dei siti di rifornimento militarizzati, 1.117 lungo le rotte di rifornimento dei convogli.

Uno studio recentemente pubblicato su The Lancet descrive scene da “Hunger games”: civili costretti ad assalire i camion, soldati che sparano per disperdere la folla, colpi mirati a diverse parti del corpo a seconda del giorno, “come in un rituale di violenza performativa”.

Cosa significa “umanitario”?

Global Sumud Flotilla e Music for peace sono in viaggio verso Gaza in cerca di corridoi sicuri per raggiungere una popolazione stremata. Quei corridoi, però, sono oggi gestiti come uno strumento di guerra da Israele. Secondo alcuni, anche per deportare la popolazione da una parte all’altra della Striscia. Il diritto internazionale, però, fissa regole chiare: è vietato usare la fame come arma di guerra; vanno protetti raccolti, acqua, bestiame, cibo; gli aiuti devono entrare senza ostacoli; la potenza occupante ha il dovere di provvedere ai civili.

A Gaza, nessuna di queste regole viene rispettata. I corridoi umanitari sono militarizzati, gli aiuti bloccati, le ong marginalizzate o accusate di collusione con Hamas. La carestia di Gaza non è una catastrofe naturale, ma l’esito di scelte politiche e militari. La novità più inquietante, però, è forse la sperimentazione di un modello di aiuto privatizzato e militarizzato, incarnato dalla Ghf. Un precedente che potrebbe ridefinire il significato stesso di “umanitario”.

Resta una domanda, la più grande: Gaza è esclusivamente il luogo di una tragedia umanitaria, o il banco di prova di una nuova normalità in cui la guerra si combatte anche con il controllo del pane e dell’acqua?