Sono trascorsi 52 anni dal colpo di Stato in Cile, quando il generale Augusto Pinochet, eliminato il presidente Salvador Allende, diede inizio a una dittatura sanguinosa che terminò nel 1990 , costando la vita a migliaia di cileni, il cui numero definitivo ancora oggi non è stato fornito.

Il dato ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216, quello delle persone che hanno subito detenzione politica e/o tortura è di 38.254, mentre le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990 è di 40 mila, secondo le ultime Conclusioni della Commissione Valech. Secondo la stime aggiornate di una commissione governativa i desaparecidos sarebbero 30 mila, 50 mila le uccisioni, con un totale di 600 mila incarcerati. 

La testimonianza 

"L'11 settembre del 1973 sono stata svegliata all’alba da una chiamata da un amico che mi diceva che la Marina si era sollevata a Valparaiso: era l'inizio del golpe", racconta Nana Corossacz, già responsabile America Latina della Cgil, che si trovava allora a Santiago: “Quindi la parola d'ordine era ‘cada qual in su puesto de combate’, ognuno nel suo posto di combattimento.

Io mi sono vestita e mi sono fatta portare in macchina dal mio compagno alla Banca centrale dove lavoravo, ma era stato ormai chiuso il portone a causa dell’allerta generale. L’edificio si trovava proprio davanti a La Moneda, il palazzo governativo. Ho comprato il giornale, mi sono girata e il mio compagno, che non si era accorto che mi ero fermata, se n'è andato. Io vivevo a cinque chilometri dalla banca centrale e ho capito che dovevo ritornare a casa a piedi.

Il centro di Santiago era praticamente vuoto e passavano solo camion strapieni di militari, tutti con le mitragliatrici puntate. Quando passavano, io e i pochi che eravamo in strada ci buttavamo a terra con le mani dietro la testa, poi ci rialzavamo e ricominciavamo a correre. Fortunatamente mia figlia, che era piccolissima, era stata tenuta a casa”.

Da quel momento cominciarono a essere diffuse “le notizie tristissime delle prime uccisioni di lavoratori delle fabbriche organizzati sindacalmente – prosegue nel suo racconto -, perché i militari sapevano bene dove trovare quelli del Partito di unità popolare che sosteneva Allende e li hanno fucilati tutti quanti. Pochi altri sono arrivati allo stadio nazionale. Di queste persone non se ne parla mai, come se non si trattasse di una cosa importante, come se le classi subalterne abbiano un valore scarso”.

Il precedente 

Corossacz ricorda anche che il 29 giugno 1973 c’era già stata una sorta di prova generale del golpe: “Davanti a La Moneda era tutto blindato e da lì Allende fece sapere che era in atto un colpo di Stato, lanciando un appello ai lavoratori per una mobilitazione generale. L'appello fu subito raccolto dalla Cut, la maggiore confederazione sindacale cilena, e dai lavoratori organizzati in diverse forme, che occuparono le fabbriche.

I partiti dell'Unità popolare e i lavoratori si organizzarono contro la destra fascista. Voglio ricordare che, nel suo ultimo discorso, Allende disse ‘il fascismo è già qui’. In questo modo fu sventato quel golpe. Questo ci spiega il valore della comunità, che, nei momenti di difficoltà, si può organizzare e fare fronte comune”. Ricordare il golpe di Augusto Pinochet non è soltanto un un problema di memoria per Corossacz, perché “in Occidente ci troviamo ora in una situazione che ha a che vedere con la nostra struttura socio-politica e che ha delle similitudini con quella che c’era in Cile 52 anni fa”.  

Il Cile di oggi 

Nana Corossacz si aggancia poi alla situazione attuale in Cile, dove a novembre si svolgeranno le elezioni politiche, e alla candidatura del centrosinistra di Jeannette Yara, della coalizione del fronte ampio dell’attuale presidente Gabriel Boric. Ci fa sapere che anche nel Paese sudamericano, come in Europa, c’è un problema di disaffezione ai partiti politici e alle istituzioni, quindi “al valore delle organizzazioni popolari, o quantomeno delle fasce più deboli che vengono messe di lato e hanno sempre meno voce in capitolo”.

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Jeannette Yara, eletta candidata nelle primarie del centrosinistra, è una donna di 51 anni, militante del Partito comunista cileno e come ministra del Lavoro nel Governo Boric ha proposto e fatto approvare importanti leggi come quella sulla riduzione dell'orario di lavoro e del salario minimo, che ora è il più alto di tutta l‘America Latina, e la riforma delle pensioni.

“È riuscita a farlo anche con l'appoggio della destra, non quella estrema, dimostrando una notevole capacità di coinvolgimento e di dialogo”, spiega Corossacz: “L'altra caratteristica di questa donna è che viene dalle classi popolari, è stata cresciuta dalla nonna nelle ‘mediagua’, case prefabbricate chiamate così perché non hanno mai sufficienti rifornimenti di acqua. Sono abitazioni precarie costruite in momenti di emergenza, come quella del terremoto, e che poi restano per sempre”.

Missione: riportare a votare giovani e classi disagiate 

“Yara – prosegue - ha sempre mantenuto un profondo rapporto con quella realtà e con quelle classi sociali che sono sempre state estremamente fiduciose nei partiti di sinistra e che invece, secondo studi e sondaggi, ora quella fiducia l’hanno persa. La rivolta sociale iniziata nel 2019 ha dimostrato una separazione totale dalla politica ufficiale di alcune classi o di alcune categorie di persone. Tra loro vi sono anche gli studenti, ma che per andare a scuola o all'università devono fare molti chilometri, perché vivono nelle periferie più marginalizzate. Loro dicono: ‘A noi non interessa la politica istituzionale’ e quindi non votano”.

Yara avrebbe quindi la chance di riportare al voto chi alle urne non andava più, ma i problemi non mancano, come ci dice Corossacz: “Lei ora ha uno stacco minimo dal candidato della destra, ma può avvantaggiarsi della obbligatorietà del voto e del fatto che nel frattempo si è fatta conoscere. Il rischio che vinca questa destra, feroce e negazionista rispetto all’operato di Pinochet e sua erede, però c’è. Quello che gioca molto è che lei è comunista, benché su alcuni temi abbia preso le distanze dal Partito, e in Cile la destra agita ancora lo spauracchio comunista”. 

Ai tempi del golpe l’Italia aveva una grande vicinanza con il Cile, tanto che furono numerosi i cileni che trovarono rifugio in Italia dopo il colpo di Stato. “C’era uno schieramento dei partiti molto simile tra i due Paesi, la Dc, il Pci, il Partito socialista. Ora invece il distacco della gente dai partiti è dovuto alla loro latitanza e all’avere perso la loro capacità di mediazione. Quando la popolazione va a votare, essendoci anche un quadro più sfumato, non lo fa per motivi ideologici ma ascoltando le parole del miglior offerente”. Una situazione non dissimile a quella che stiamo vivendo in Italia e in Europa. 

“Quindi – conclude Corossacz tra le preoccupazioni e il tentativo di essere fiduciosa – può essere interessante osservare come vanno e andranno le cose in Cile. Quello che posso dire è: speriamo bene”.