Il testo che segue è una traduzione parziale dell'articolo “6 Years After the Rana Plaza Collapse, Are Garment Workers Any Safer?” di Michelle Chen, pubblicato su "The Nation" (https://www.thenation.com/article/rana-plaza-unions-world)

Sei anni fa, il fascino dell'industria globale della moda è stato distrutto dal crollo del Rana Plaza. La fabbrica tessile nella periferia di Dacca, in Bangladesh, è venuta giù il 24 aprile 2013, uccidendo almeno 1.132 persone e ferendone oltre 2.500. Lo shock e la vergogna a livello mondiale che ne sono seguiti sono sembrati in grado di forzare un profondo ripensamento nell'industria tessile globale e quasi subito lavoratori, sindacati, avvocati e consumatori hanno cominciato a chiedere cambiamenti reali rispetto alla cultura dell'impunità e dell'abuso che per decenni aveva alimentato i più famosi marchi della moda mondiale.

Ma sei anni dopo, quando è veramente cambiato? Dopo il disastro del Rana Plaza c'è stata certamente un'ondata di mobilitazione, pressione dei consumatori e azioni legali, ma ancora molti lavoratori sono soggetti a trattamenti disumani, salari poverissimi e violenza di genere sul lavoro. Quindi, la domanda è: i lavoratori della moda sono o no più sicuri, più tutelati nei loro posti di lavoro?

Dal Rana Plaza in poi, il settore tessile nel Bangladesh ha spinto in un certo senso il mondo a stabilire protezioni per i lavoratori nelle catene di approvvigionamento e a creare strumenti legali per contrastare gli abusi più gravi. Già nel primo mese dopo il disastro, i lavoratori del tessile, le associazioni, i sindacati locali e internazionali riuscirono a produrre un accordo multilaterale senza precedenti, l'Accordo sugli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh, anche conosciuto come “L'Accordo”. Un patto davvero innovativo, perché in grado di estendere tutta una serie di norme e standard minimi sulla sicurezza degli edifici, con relativi controlli, monitoraggi e sanzioni, a tutta la catena di approvigionamento delle multinazionali. Per la prima volta, più di 200 multinazionali, come H&M, Esprit e American Eagle, divenivano formalmente responsabili per le condizioni di sicurezza garantite nelle fabbriche dei loro fornitori.

L'accordo, quindi, è stato uno strumento di reale cambiamento nell'industria tessile asiatica: da quanto è entrato in vigore, nel 2013, unp staff internazionale, guidato da ingegneri e avvocati del Bangladesh, ma anche europei, ha rinnovato centinaia di fabbriche e rimosso decine di migliaia di potenziali rischi presenti nei posti di lavoro, da cablaggi difettosi e uscite d'emergenza inadeguate.

E le misure introdotte sembrano produrre risultati. Già prima del Rana Plaza, il settore era famoso per le sue fabbriche “trappole mortali”, con oltre 500 morti registrate nelle industrie tessili tra il 2005 e il 2012. Poi, dal 2013 c'è stato un netto calo: gli incidenti più gravi (quelli con più di 5 morti o 10 feriti) sono passati dai 17 del 2013 a una media tra 2 e 5 all'anno nell'ultimo periodo, secondo i dati riportati dal Solidarity Center e dai ricercatori della NYU. In tutto il settore tessile del Bangladesh nel 2017 sono morti circa 20 lavoratori. Kalpona Akter, una lavoratrice e attivista nel settore, ha dichiarato a The Nation che ritiene il calo degli infortuni un risultato dell'accordo: “È un cambiamento fenomenale, bisogna riconoscerlo e bisogna continuare”.

L'accordo ha anche offerto ai lavoratori del settore tessile significativi strumenti legali, creando un set di regole di sicurezza e canali di rappresentanza, attraverso dei comitati locali per la sicurezza guidati dai lavoratori (una sorta di Rlst, ndt). Secondo l'International Labor Rights Forum lo staff che ha implementato l'Accordo in Bangladesh ha condotto 5,274 sessioni di formazione, in 408 fabbriche, e ha risolto circa 330 vertenze attraverso il meccanismo previsto nell'accordo stesso. Vertenze non solo sui problemi di sicurezza, ma anche sull'orario di lavoro, straordinari forzati, negazione della maternità, e violenza di genere. Il Solidarity Center, un'organizzazione internazionale per i diritti dei lavoratori, ha seguito i percorsi di formazione con l'intento di incoraggiare l'organizzazione dei lavoratori, partendo dalla sicurezza sul lavoro per favorire l'empowerment dei lavoratori.

Attenzione, però: questi risultato sono oggi sotto attacco. Negli ultimi mesi infatti il governo e i proprietari delle fabbriche hanno lanciato un'offensiva contro i lavoratori e circa 11,600 di loro sono stati licenziati, costretti a dimettersi o, peggio, arrestati per aver partecipato a proteste e scioperi nei mesi di dicembre e gennaio. Le proteste sono iniziate in risposta alla riforma dei salari entrata in vigore nella seconda metà del 2018. E la richiesta di salari dignitosi ha portato a scioperi selvaggi a Dacca e in molti altri distretti del paese che però la polizia ha soppresso in maniera durissima usando “cannoni d'acqua, gas lacrimogeni, e proiettili di gomma”, secondo quanto riferiscono vari testimoni.

L'accordo stesso sta subendo delle modifiche, visto che il corpo internazionale che lo ha gestito negli anni passati sta cedendo il controllo ad un'agenzia pubblica del Bangladesh (Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association). A metà maggio 2019, c'è stato un accordo tra il gruppo internazionale e questa agenzia, per definire i dettagli del passaggio. E secondo IndustriALL, uno dei sindacati internazionali che hanno seguito l'accordo, l'indipendenza dell'agenzia è assicurata e i sindacati locali hanno un ruolo significativo nel controllo. Il segretario generale di IndustriALL Valter Sanches ha dichiarato che “I sindacati locali e globali continueranno a lavorare duro per garantire che i lavoratori tessili del Bangladesh abbiano i massimi livelli di sicurezza e di formazione oltre all'accesso ad un meccanismo indipendente di reclamo”.

Tuttavia, i rappresentanti e i difensori dei lavoratori sono preoccupati dai meccanismi di controllo della nuova struttura e temono che l'indipendenza dell'Accordo possa essere condizionata dal coinvolgimento delle associazioni imprenditoriali. Il Maquila Solidarity Network, per esempio, osserva che i datori di lavoro avranno un'unità di rappresentanza all'interno della struttura decisionale, con il rischio di un indebolimento dell'indipendenza della stessa. Questa nuova fase dell'accordo dunque, potrebbe mettere in evidenza i limiti derivanti dalla sua gestione congiunta, visti gli impedimenti cronici che l'organizzazione dei lavoratori incontra in Bangladesh, dove permane una classe politica notoriamente amica del business.