I lavoratori Amazon si sentono controllati, sono messi sotto pressione, costretti a ritmi stressanti e a carichi di lavoro insopportabili, tanto che spesso lasciano o sono indotti a lasciare il posto dopo pochi mesi. È quanto emerge dall’indagine “La vita nel panopticon Amazon” promossa e pubblicata dalla federazione internazionale dei sindacati Uni Global Union, cui hanno partecipato 2 mila dipendenti del colosso dell’e-commerce di otto Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Polonia, Spagna e Australia). 

Magazzinieri, driver, impiegati delle aree tecnologiche e del servizio clienti: tutta la filiera ha preso parte alla più grande ricerca indipendente sugli addetti della multinazionale mai condotta prima, con un questionario on line promosso sulle piattaforme social e dalle organizzazioni sindacali, cui ha aderito Nidil Cgil. L’obiettivo: studiare gli effetti concreti sull’uomo che il sistema di sorveglianza tecnologica ha sulle persone che lo vivono. 

“I risultati? Sono uno spaccato preoccupante e una conferma di quanto abitualmente emerge nelle assemblee e nei colloqui con i lavoratori", spiega Francesco Melis, di Nidil Cgil: "L’azienda esercita un controllo, un tracciamento e un monitoraggio costante, sistematico e persistente delle prestazioni e dei lavoratori, che hanno sempre gli occhi puntati addosso. Amazon dichiara che si tratta di sistemi utili all’organizzazione delle attività, per noi sono meccanismi di pressione a tutti gli effetti, che dettano i ritmi da sostenere e gli standard di velocità da mantenere, sia che si tratti della consegna dei prodotti che dell’etichettatura dei pacchi”.   

Scanner portatili, app aziendali, software di tracciamento delle attività, badge, dispositivi gps, Chime (un programma di comunicazione interna), schermi nelle postazioni, telecamere di bordo (nei mezzi degli autisti), e-mail: è una varietà di dispositivi di monitoraggio dalla tecnologia avanzata che Amazon usa certamente per organizzare i processi, ma anche per controllare da vicino a livello individuale la produttività dei lavoratori, con una raccolta di dati il cui impiego non è trasparente.

Questa pratica aziendale ha un impatto negativo sulla loro salute mentale prima ancora che fisica. Stressato, sotto pressione, ansioso, come uno schiavo, robot, non affidabile, come un numero, prigione: questo è il modo in cui il controllo li fa sentire. Con un senso d'inadeguatezza, derivato dal fatto che spesso non riescono a raggiungere aspettative, obiettivi e standard eccessivi dettati dai manager, che li induce a lavorare più duramente e velocemente, a scapito della salute fisica.

“Questo spingere i ritmi di lavoro all’eccesso per avere prestazioni sempre più alte e performanti porta al turn over selvaggio che segnaliamo da tempo come problema di tutta la filiera Amazon", prosegue Melis. Un esempio? "Nello stabilimento di Rovigo ci sono complessivamente 2.300 lavoratori, ma i contratti attivati in un anno sono 6 mila. Questo vuol dire che il tasso di sostituzione del lavoratore è di quattro mesi e mezzo. Quando non rendi più come all’inizio, quando le tue performance si riducono, ti mandano a casa. E incentivano addirittura la fuoriuscita: oltre alle spettanze di legge, 2 mila euro per ogni picco programmato di lavoro che l’addetto ha fatto, come il Natale e il Black Friday”.

Tra le testimonianze libere raccolte dall’indagine di Uni Global Union, molte lamentano il fatto che l’intenso ritmo di lavoro peggiora problemi di salute preesistenti o ne crea di nuovi. Peccato che in Italia l’Inail riconosca la malattia professionale solo dopo tre anni di lavoro, mentre la permanenza di un addetto in Amazon è in media di 4-6 mesi.  Altre testimonianze confermano che l’atmosfera in azienda, di paura e di terrore, impedisce ai lavoratori di esercitare facilmente il diritto di organizzarsi sindacalmente.

Basti pensare che a Coventry, nel Regno Unito, dove c’è il magazzino centrale che serve tutto il Paese, soltanto ieri (mercoledì 25 gennaio) si è tenuto il primo sciopero in assoluto degli operai Amazon: 300 dipendenti hanno incrociato le braccia contro l’aumento irrisorio dello stipendio, non proporzionato all’inflazione galoppante. “In tutti i siti del mondo – conclude Melis - i lavoratori del gigante americano si sentono ricattati, hanno paura di essere licenziati, di non essere confermati, e questo rende molto difficile organizzarli sindacalmente e rivendicare i loro diritti”.