Ai lavori forzati, fino alla riduzione in schiavitù. Sarebbe questo il destino delle minoranze etniche nella regione nord-occidentale cinese dello Xinjiang, già sotto i riflettori per le accuse di genocidio ai danni degli uiguri. A dirlo è un dossier curato dall’esperto di schiavitù moderne, Tomoya Obokata, il quale si concentra su due distinti sistemi previsti dallo Stato. Il primo è quello che prende in considerazione i centri di rieducazione, che Pechino definisce “centri di trasformazione vocazionale” per il reinserimento sociale di estremisti religiosi o terroristi, dove i detenuti sono soggetti a tirocini; il secondo sarebbe, invece, un meccanismo di riduzione della povertà attraverso un trasferimento di manodopera che riguarda principalmente i lavoratori delle aree rurali, spostati ad altre occupazioni, in particolare nell'industria manifatturiera. Questi programmi possono “creare opportunità di lavoro” e “aumentare i redditi” delle fasce più povere, spiega il relatore, ma allo stesso tempo, l’entità dei poteri esercitati sui lavoratori “può in alcuni casi, equivalere a schiavitù”.

Tra i metodi coercitivi praticati contro i dipendenti vengono segnalate le restrizioni di movimento fino all'internamento, le minacce, le violenze fisiche o sessuali e altre pratiche definite degradanti. Un sistema simile a quello in uso nello Xinjiang, evidenzia il rapporto, sarebbe in vigore anche in Tibet – come emerso già in un altro studio risalente al 2020 – e ha portato molti agricoltori e allevatori a essere impiegati nella manodopera a basso costo.

I relatori speciali, come Obokata, sono esperti indipendenti in vari campi nominati dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, ma non parlano a nome dell’agenzia dell'Onu. Lo Xinjiang, dove vive la minoranza uigura, di fede musulmana, è da anni sotto i riflettori per le violazioni dei diritti umani da parte del governo cinese. Secondo rapporti del 2017, almeno un milione di persone sono detenute nei “centri di trasformazione vocazionale”, ma contro il governo sono state mosse accuse anche più gravi.

Pechino ha sempre negato le accuse di violazione dei diritti umani e difeso le misure messe in atto come necessarie per il contrasto ai "tre mali", ovvero il separatismo, l'estremismo religioso e il terrorismo. Anche in questo caso il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha respinto tutte le accuse affermando che il relatore speciale ha usato il suo potere per “diffamare in modo palese la Cina e agire come uno strumento politico delle forze anti-cinesi. Non c’è mai stato il lavoro forzato nello Xinjiang", ha detto Wang in una conferenza stampa a Pechino: “Il governo cinese segue un approccio centrato sulle persone. Prestiamo grande attenzione alla tutela dei diritti e degli interessi dei lavoratori”.