Qualcuno ha fatto notare come negli ultimi due mesi nel dibattito mediatico i virologi siano stati sostituiti dagli esperti di geopolitica. Chi ci spiegava in che modo, perché, quanto e dove si diffonde il virus Sars Cov2 è stato soppiantato da quelli che ci spiegano come è nata la guerra in Ucraina, perché si è diffusa, quanto durerà, dove ci porterà. E in definitiva quanto sia importante che l’Occidente vi partecipi non in prima persona ma inviando armi. “È un dibattito falsato, la politica internazionale è ridotta alla propaganda per le vittime o per gli autori dei crimini – afferma Francesco Strazzari, professore di relazioni internazionali alla Scuola universitaria superiore Sant'Anna di Pisa -, ma quello che colpisce è che in mezzo non c’è un’articolazione politica, lo sforzo per costruire la pace. E mentre il presidente Usa Joe Biden invia di nuovo armi a Kiev, inclusi artiglieria pesante ed elicotteri, una fornitura da 800 milioni di dollari, non c’è nessuna evidenza scientifica o storica che questa mossa avrà riflessi positivi sulla guerra”.

Che cosa intende dire professore?
La storiografia militare ci insegna che quando si distribuiscono armi ai civili su larga scala, come sta accadendo in Ucraina, si creano le condizioni perché la guerra si intensifichi, perché acquisti la dimensione di una guerra civile, quindi nefasta. È successo a Mogadiscio, è successo in Algeria. Quello che è accaduto finora, il reclutamento massiccio degli uomini sotto i 60 anni, il loro ingresso nelle milizie territoriali, un processo di militarizzazione diffuso, la distribuzione di armi ai civili dopo brevi corsi di addestramento, espone a una serie di incognite domani, perché rende rarefatto il controllo unitario, perché è difficile assicurare che l’accesso e la diffusione di quelle armi rimanga nelle mani dei destinatari.

Ci è stato raccontato che l’invio massiccio di armi alla parte ucraina avrebbe accorciato i tempi della guerra. È così?
Non ci sono evidenze scientifiche, non ci sono stati casi nella storia in cui il trasferimento di armi abbia abbreviato una guerra. Mi viene in mente forse la guerra israelo-araba del Kippur del 1973, ma altri casi che vengono evocati in questi giorni hanno avuto esiti lunghissimi. Il discorso è diverso se si vuole basare la decisione su un’opinione politica, sulla quale io non entro. Ma l’evidenza è un’altra. E anche sulla legittimità di armare una parte si fanno comparazioni che non sono plausibili: un conto è armare le brigate partigiane contro uno stato islamico, come i kurdi in Iraq, un altro è alimentare un conflitto ad alta intensità contro una potenza nucleare. Inoltre, si pone la questione dell’escalation del conflitto.

Questo dell’escalation è un tema che sembra sottovalutato: a che cosa può portare la fornitura di armi a Kiev?
Si aprono le porte a un’escalation appunto, di cui non vediamo la fine e che potrà essere verticale e orizzontale. Verticale e cioè riguardare l’intensità del conflitto, che può alzarsi ulteriormente. Putin, prigioniero di visione ideologica della Russia, più volte ha parlato del nucleare come evenienza che è disposto a utilizzare se fosse in gioco l’esistenza stessa del suo Paese. Ma è difficile calcolare questa escalation con uno che ha sbagliato i calcoli. In queste ore le tv russe stanno addossando le ragioni della sconfitta alla Nato: noi non stiamo perdendo contro l’Ucraina ma stiamo perdendo contro la Nato. Quello che abbiamo visto è una fornitura di armi per trascinare i russi in una guerra di logoramento, un tentativo di stallo fino a fare abortire un fronte, come il fronte Nord. Un tipo di gestione che ha cercato di mantenere il livello di intensità dentro parametri che sono serviti a rintuzzare l’offensiva russa: i russi sono talmente preponderanti che per gli ucraini non perdere è già una vittoria.

Il rischio di escalation orizzontale in cosa consiste?
A quella verticale può associarsi l’escalation orizzontale. Una durata più lunga della guerra può portare al coinvolgimento nel conflitto di altre parti. Nei conflitti armati questo significa altri Stati, quelli confinanti. Se pensiamo alla guerra nei Balcani, alla guerra in Siria, è accaduto: alla lunga le guerre tendono a coinvolgere i Paesi vicini. Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia hanno una visione di questa guerra che tende a spostare la linea ucraina, per loro qualunque arma è un’arma lecita e difensiva perché questa è una guerra di difesa. L’elemento pericoloso è rappresentato da qualcuno che di fronte alla propria sorte politica non esita a calcare la mano, ad avere un atteggiamento provocatorio. Come la Lettonia che ha dichiarato il 9 maggio giornata di lutto, in cui si commemorano le vittime dell’aggressione russa in Ucraina. In questo momento che bisogno c’è? Un di più di provocazione volto a creare dei fatti compiuti mediatici, a dettare l’agenda sia ai russi che alla Nato. C’è un eccesso retorico mediatico e politico che tende a determinare anzi a trascinare l’agenda militare.

La gestione di questa guerra secondo lei è scriteriata?
No, ma si basa su questa idea: fermare l’offensiva affermando un principio di parità sul terreno. Creare una capacità sul campo in grado di rintuzzare e respingere l’offensiva russa. Questo rende comprensibili il grado e la gravità delle vittime civili. Mi spiego meglio. In una logica spietata di guerra, per evitare il ricorso alle armi chimiche, batteriologiche e al piccolo nucleare, i civili rappresentano un fattore di attrito per la potenza attaccante. Ecco perché una potenza di fuoco come quella russa si è accanita sui civili. Nel combattimento urbano i civili sono un fattore di attrito.

Ma quindi l’invio di armi è una mossa giusta o sbagliata?
Se guardiamo al dato storico, accademico scientifico, e non a quello morale, politico o ideologico, la plausibilità ma è suffragata dall’evidenza empirica. Mandare le armi non abbrevierà la guerra. Storicamente il trasferimento di armi porta a un allungamento della guerra, associato con la guerra civile.

Dunque che cosa si sarebbe dovuto fare?
Fin dal primo giorno si è scelta una strategie militare, non è mai stata presa in considerazione una strategia di massa non violenta, usata invece per anni in India con Gandhi, un aspetto presente nella storia ucraina. Le rivoluzioni colorate, movimenti pacifici simili e correlati tra di loro, che si sono sviluppati principalmente in alcuni Stati post-sovietici negli anni 2000, hanno avuto successo inizialmente e spaventarono Putin. Se l’Ucraina ha accesso una luce sugli esiti di una lotta di popolo non violento, adesso tutto è militare e paramilitare.

Che cosa possiamo fare qui e oggi?
La risposta è di principio: va comunque fermata la logica della guerra rifiutando la logica delle armi, vanno tessute reti di disobbedienza di massa alle amministrazioni militari dei russi. C’è un lavoro politico nonviolento da fare, e poi c’è un lavoro sul piano internazionale: non basta dire armi sì armi no, ma anche quali armi in questo contesto. Tutti tacciono, tutti aspettano il momento in cui le parti saranno stanche. Ma attendere il momento in cui il conflitto raggiungerà il punto di maturazione per non bruciarsi è una logica molto pericolosa perché le guerre odierne non hanno un andamento modale, ma sinusoidale, protratto nel tempo. E non è detto che si raggiunga il punto di stallo.