Il 14 ottobre 1962, un aereo spia U-2 statunitense evidenzia la costruzione di una postazione missilistica sull'isola di Cuba. Kennedy ordina la "quarantena" navale: qualsiasi nave che tenti di forzare il blocco (effettivo a partire dalle 10 del 24 ottobre) verrà fermata anche con il ricorso armi. L’America viene a conoscenza della crisi in atto solo il 22 ottobre, quando Kennedy dirà in televisione: “La politica di questa nazione sarà quella di considerare ogni missile nucleare lanciato da Cuba contro qualunque nazione dell’emisfero occidentale come un attacco lanciato dall’Unione Sovietica contro gli Stati Uniti, che provocherà una rappresaglia con ogni mezzo nei confronti dell’Unione Sovietica”.

Il mondo è sull’orlo della guerra. Alle ore 12 del 25 ottobre un preoccupato Giovanni XXIII dirige ai popoli del mondo intero ed ai loro governanti un appello per la pace immediatamente diffuso in ogni continente dalla stazione Radio Vaticana. Forse anche grazie all’intercessione del pontefice, come dicono alcuni, forse no, la guerra non scoppia ed il 26 ottobre Kruscev avanza l’offerta di ritiro dei missili dietro la promessa degli Stati Uniti di non invadere l’isola. Il 28 ottobre la crisi può considerarsi finita e la quarantena navale viene rimossa il 20 novembre.

Kennedy però intensifica le sanzioni contro Cuba, proibendo anche il trasporto di merci statunitensi su navi straniere che avessero fatto tappa nei porti cubani e varando l’8 luglio 1963 i Cuban Assets Control Regulations (CACR). 

I “regolamenti per il controllo dei patrimoni cubani” proibiranno l’esportazione di prodotti, tecnologie e servizi statunitensi a Cuba, sia direttamente che attraverso Stati terzi e l’importazione di prodotti cubani, sia direttamente che indirettamente, fatta eccezione per materiale informativo e opere d’arte con valore inferiore ai 25.000 dollari. Tutti i patrimoni cubani (pubblici e privati) in possesso statunitense sono congelati e viene posto l’assoluto divieto di mandare rimesse a Cuba o favorire viaggi verso gli Stati Uniti, prevedendo licenze particolari solo in caso di emergenze umanitarie (una legge del 1996 aggraverà l’embargo stabilendo che gli Stati Uniti ritireranno tutti i finanziamenti verso le organizzazioni internazionali che violeranno il blocco e annullerà le importazioni da quei paesi che effettueranno traffici con Cuba nella stessa misura delle importazioni da questi effettuate). È il bloqueo.

È quell’embargo ancora in vigore (per circa trenta volte, nella storia, le Nazioni Unite hanno condannato il blocco statunitense, ma dal 1962, e poi con l’inasprimento apportato dalla famigerata legge Helms - Burton firmata da Bill Clinton, le imposizioni non si sono mai fermate, neanche sotto la presidenza Obama), nonostante gli anni trascorsi, le sue inevitabili, drammatiche, conseguenze sulla popolazione, la pandemia, gli aiuti ricevuti.

“Non arriverà mai troppo tardi il ripensamento del sistema stesso degli embarghi - diceva nel marzo scorso Susanna Camusso - del bloqueo, di quelle sanzioni che impoveriscono le popolazioni e oltretutto in alcuni casi funzionano anche da strumenti nelle mani dei governi per non migliorare le condizioni economiche o democratiche delle popolazioni. Infatti gli embarghi da strumento di pressione sui governi sono diventati strumenti che stremano i popoli. Colpisce che la riflessione sulle sanzioni si faccia solo quando si parla di grandi Paesi, pensiamo a quelle decise, in sede europea, verso la Cina in ragione della repressione, dello sfruttamento, della lesione dei diritti umani della minoranza uigura, sanzioni dirette verso coloro che hanno compiuto gli atti che si condannano. Viene da chiedersi se anche in questo ci siano due pesi e due misure, che non sembrano dipendere dalla valutazione degli atti da condannare ma dalla possibilità di ritorsioni, dall’idea che tra Paesi del primo mondo sia meglio essere più attenti, mentre nei Paesi più poveri o in via di sviluppo si possa trascurare di ragionare delle conseguenze gravi e strutturali che ricadono sulla popolazione. Sono molte le ragioni che non ci convincono del voto europeo e italiano all’Onu (diritti umani) contro la condanna di embarghi contro i Paesi, ma quella soprascritta ci pare la domanda fondamentale: perché colpire i popoli?”.

“Noi siamo grati ai medici cubani - diceva ancora la responsabile delle politiche internazionali della Cgil nell’aprile 2020 - li ringraziamo, festeggiamo l’arrivo della seconda brigata Henry Reeves, ci sentiamo accuditi e coccolati da chi viene da molto lontano e lo fa senza spocchia, senza prezzo. Dobbiamo essere grati a loro e alla loro Isola e allora vogliamo - perché auspicare non basta - che si levi la voce del nostro Paese, per dire senza fronzoli fine dell’embargo, basta sanzioni ai popoli. In tempi in cui tutti raccontano del nuovo mondo che dobbiamo progettare, cominciamo da questo gesto, preciso, in verità semplice”.

E se non ora, quando?