Accusato di aver tentato di rovesciare il regime al potere e per la sua tesi di master sull’omosessualità, una volta arrestato, Patrick Zaki sarà torturato per 17 ore consecutive con colpi allo stomaco, alla schiena, e con scariche elettriche inflitte dalle forze di sicurezza egiziane, oltre a essere interrogato a riguardo della sua permanenza in Italia e al suo presunto legame con la famiglia di Giulio Regeni. Dopo una breve detenzione presso Talkha, il 25 febbraio sarà trasferito nel carcere di Mansura prima di Tora poi. La sua detenzione preventiva, arbitraria, illegale, immotivata e crudele, sarà più volte - l’ultima pochi giorni fa - prolungata per periodi successivi di 45 giorni.

"Auspichiamo - dicevano poco dopo l’arresto dello studente mamma e papà Regeni - che ci sia per Zaki una reale, efficace e costante mobilitazione affinché questo giovane possa essere liberato senza indugi. Chiediamo alle istituzioni italiane ed europee di porre immediatamente in essere tutte quelle azioni concrete che non sono mai state esercitate per salvare la vita di Giulio o per pretendere verità sul suo omicidio. Siamo empaticamente vicini ai familiari e agli amici di Patrick dei quali comprendiamo l’angoscia e il dolore. Noi sappiamo di cosa è capace la paranoica ferocia egiziana: sparizioni forzate, arresti arbitrari, torture, confessioni inverosimili estorte con la violenza, depistaggi, minacce. Patrick, come Giulio, merita onestà e determinazione, non chiacchiere imbarazzanti e oltraggiose”.

"Sono esausto fisicamente e mentalmente - raccontava lo scorso dicembre il ragazzo alla madre, andata a fargli visita nel carcere di Tora - non posso continuare a stare qui ancora a lungo e mi deprimo ogni volta che c’è un momento importante nell’anno accademico, mentre io sono qui invece di essere con i miei amici a Bologna".

"Durante la visita - riferirà la famiglia - lui non era in sé del tutto, ma diverso da ogni altra volta e ci ha letteralmente spezzato il cuore. Le sue parole ci hanno lasciato in lacrime, incapaci di aiutare nostro figlio in questa straziante situazione. Inoltre siamo rimasti scioccati dal vedere che era depresso al punto che ha detto che raramente esce dalla sua cella, perché non riesce a capire perché si trova lì e non vuole affrontare il fatto di dover uscire per camminare per pochi metri fuori solo per essere rinchiuso di nuovo in una cella di pochi metri. (…) Nostro figlio è una persona innocente e un brillante ricercatore, dovrebbe essere valorizzato, non rinchiuso in una cella. Dieci mesi fa, Patrick stava lavorando al suo master e pensava di terminarlo per poi proseguire con il dottorato di ricerca. Ora come ora, il suo futuro è completamente incerto; non sappiamo quando sarà in grado di continuare gli studi, di lavorare e persino di tornare alla sua vita sociale, un tempo ricca. Chiediamo a ogni persona responsabile e a chi prende le decisioni di rilasciare immediatamente Patrick. Restituiteci nostro figlio e restituiteci tutte le nostre vite”.

“Sogno che la mia lettera sia una delle mille e mille che ti accoglieranno al tuo ritorno", scriveva nell’aprile scorso un professore all’indirizzo forpatrick@unibo.it, una casella di posta elettronica aperta dall’Ateneo di Bologna in piena pandemia per tenere viva l’attenzione sul caso. Un diario collettivo, intimo e solidale fatto di ricordi, poesie, canzoni a lui dedicate, parole e pensieri di sdegno e speranza. "Spero che questo ti darà la misura di quanto ti abbiamo atteso, di quanto vogliamo impegnarci - come possiamo, finché possiamo - perché tu torni fra noi; perché tu torni a vivere, a testimoniare, a lottare. Che tu possa resistere, che tu possa trovare, fra gli amici che ti abbracceranno, un lenimento per le ferite che porterai addosso".

“L’arresto arbitrario e la tortura di Patrick Zaky rappresentano un altro esempio della sistematica repressione dello Stato egiziano nei confronti di coloro che sono considerati oppositori e difensori dei diritti umani, una repressione che raggiunge livelli sempre più spudorati”, tuonava Amnesty nel febbraio dello scorso anno documentando 112 casi di sparizione forzata per periodi fino a 183 giorni, prevalentemente per responsabilità dell’Agenzia per la sicurezza nazionale.

Dal 2013, anno del colpo di Stato, in Egitto sono morte in detenzione 1.058 persone, di cui 100 tra gennaio e ottobre 2020. Nel rapporto ‘I Giulio Regeni d’Egitto’ l’associazione Committee for Justice ha raccolto tutti i casi di decesso per età, struttura detentiva e motivi: torture (144), mancanza di cure (761), suicidio (67), cattive condizioni in cella (57) e altre ragioni (29).

Giulio Regeni non è stata l’unica vittima delle autorità egiziane - denunciava il  direttore esecutivo di Cfj, Ahmed Mefreh, presentando il resoconto dettagliato del report - Dopo il suo omicidio ne sono accaduti altri nei confronti di stranieri, penso al francese Eric Lange, l’americano James Henry Lawne e altri, uccisi a sangue freddo e senza alcuna conseguenza penale nei confronti dei loro torturatori e assassini. Si tratta di pochi casi rispetto alla moltitudine dei nostri connazionali fatti fuori dal regime in quanto considerati scomodi. Ciò che sta accadendo in Egitto da alcuni anni a questa parte è ammantato da un silenzio internazionale sospetto”.

Vogliamo giustizia per Giulio, Eric, James. Vogliamo Patrick libero. Adesso! Be strong, Patrick. Resisti, non sei solo. E che tu possa - da uomo libero - emozionarti alla vista di quanto e quanti abbiamo lottato per te, per noi.