Secondo il Ksh, (Ufficio centrale di statistica), in Ungheria, tra marzo e aprile, circa 116.000 persone hanno perso il lavoro. Una situazione che, sottolineano gli esperti, si è presentata a causa della recessione economica dovuta alle misure restrittive introdotte per contrastare la diffusione nel paese del Coronavirus all’interno di uno stato di emergenza che, alla fine di marzo, ha conferito pieni poteri al premier Viktor Orbán, a tempo indeterminato. Stando ai dati messi a disposizione dal Ksh, a marzo sono state licenziate 50.000 persone, tale processo si è intensificato nel mese successivo che ha visto circa 64.000 lavoratori perdere l’impiego. In tal modo, la disoccupazione è salita a oltre il 6%. Una percentuale che i calcoli ufficiali non ottenevano dall’inizio del 2016.

Infatti, in tempi più o meno normali, il tasso di disoccupazione in Ungheria risultava essere del 3,5%, anche se i sindacati trovavano che questa cifra non fotografasse in modo veritiero la situazione del paese. Sostenevano che la medesima fosse determinata da un computo che teneva conto degli impiegati nei lavori saltuari e mal pagati di pubblica utilità e anche del numero degli ungheresi impiegati all’estero. Questi ultimi sono protagonisti di un fenomeno migratorio di considerevoli dimensioni che, secondo gli osservatori, risale al 2008 e che, stando alle cifre dell’Ocse, in una decina d’anni ha portato circa un milione di ungheresi nei paesi economicamente più stabili dell’Unione europea.

Si tratterebbe in molti casi di persone provviste di titolo di studio superiore, capaci di parlare una o più lingue straniere, che lasciando lo Stato danubiano hanno contribuito al calo demografico interno. Problema, quest’ultimo che riguarda un po’ tutta l’Ue ma che presenta caratteri particolarmente accentuati nei Paesi dell’Europa centro-orientale che ne fanno parte. Il fenomeno ha portato ad un impoverimento di forza lavoro in Ungheria in diversi settori, come lamentato da diverse aziende interne e soprattutto estere presenti nel paese. Così, alla fine del 2018, sono iniziate numerose manifestazioni contro la cosiddetta “legge schiavista” che aumentava il numero delle ore annuali di lavoro straordinario da pagare chissà quando. Misura concepita per venire incontro a forti aziende straniere come l’Audi e la Mercedes che concorrono in modo significativo alla crescita economica nazionale.

Le vicende descritte sono avvenute e avvengono in un contesto caratterizzato da profonde divisioni di carattere forse soprattutto economico all’interno della società ungherese e in un mondo del lavoro che privilegia la flessibilità e lascia ai sindacati un ruolo, come minimo, marginale. Questi ultimi hanno a che fare con un governo che non ama trattare ma ricordano che neanche quelli liberalsocialisti brillavano per dialogo con le parti sociali. L’esecutivo attuale vuole avere mano libera su tutto e rivendica successi in diversi campi, come quello della crescita economica, aspetto che non tiene conto delle contraddizioni esistenti in tale ambito. “L’Ungheria cresce, sì, ma per pochi”, aveva detto una volta László Kordás, presidente della Maszsz (Confederazione dei sindacati ungheresi), a sottolineare disparità sociali ed economiche e l’iniqua distribuzione della ricchezza prodotta all’interno dei confini nazionali.

La crisi sanitaria dovuta al Covid-19 non ha fatto altro che sottolineare questi squilibri anche nel caso dell’Ungheria. Secondo Unicef Ungheria, per esempio, la situazione che si è determinata nei mesi scorsi ha prodotto un impatto particolare sul presente e sul futuro dei bambini e rimarcato divisioni profonde in termini di possibilità di accesso alle lezioni da remoto. Anche se il sistema lo nega, esiste nel paese un problema di povertà diffusa e di povertà infantile. Secondo un recente studio realizzato dalla Gyere, un’associazione che si occupa di infanzia, il 30% degli strati sociali più poveri cresce oltre la metà dei bambini ungheresi e, come già precisato, questa situazione ha mostrato tutte le sue criticità a maggior ragione con le restrizioni dovute alla pandemia.

Ciò è vero anche per gli anziani. L’aumento delle pensioni pari al 2,8%, avvenuta a gennaio, non avrebbe portato a sensibili miglioramenti del livello di vita dei due terzi dei pensionati né si pensa che possa aiutarli significativamente il fatto di ricevere l’ammontare di una settimana extra, nel febbraio del 2021, come parte delle misure previste per la crisi dovuta al Coronavirus. Tornando al mondo del lavoro, secondo il Ksh, lo scorso mese di aprile ha fatto registrare in tutto 187.000 disoccupati. Secondo il portale d’informazione Portfolio.hu, i 64.000 che avevano perso il lavoro in quel mese sono stati classificati come inattivi e come soggetti non impegnati a cercare un nuovo impiego. Portfolio fa notare che la perdita del lavoro è stata un prodotto delle misure restrittive applicate dal governo, non al fatto che i disoccupati avessero improvvisamente deciso di restare tali anche in futuro. I problemi risultano accentuati dalla situazione creatasi con la crisi sanitaria, ma le loro origini sono molto più profonde e lontane.