L’inflazione è tornata e come sempre, la sua scure si abbatte sui più poveri: disoccupati, “semioccupati” (che non riescono a lavorare nemmeno sette mesi l’anno), part-time involontari e lavoratori (più della metà) che non riescono a rinnovare i contratti scaduti. Le famiglie in povertà assoluta, che nel 2005 erano il 3,6% del totale, già nel 2021 sono più che raddoppiate (7,5%) e sono destinate a crescere ancora. All’inflazione si accompagna il rallentamento del prodotto. C’è ancora riserbo a parlare apertamente di stagflazione. Ma il rischio è ormai presente: i prezzi corrono a velocità che non si vedevano dagli anni ’80, ben oltre il doppio dell’obiettivo di inflazione che, peraltro, la Banca centrale europea aveva già allentato un anno fa, fissandolo "al due per cento sul medio termine" e "in maniera simmetrica", ovvero con la possibilità di accettare temporanee deviazioni in più o in meno rispetto al target centrale.

Per le autorità responsabili del governo dell’economia, la situazione non è nuova. La stagflazione globale degli anni ’70, originata dagli shock di prezzo del petrolio e delle materie prime seguiti alla Guerra del Kippur (1973) e poi alla Rivoluzione islamica iraniana (1978-79), fu controllata grazie all’abbinamento di politiche monetarie restrittive da un lato e politiche di indebolimento dello stato sociale e del sindacato dall’altro. Se le cause della crisi erano internazionali, i rimedi furono soprattutto interni. La scelta si basava sull’ipotesi che, in una situazione inflazionistica, un aumento del tasso di interesse avrebbe reso alle imprese più difficile e più costoso l’accesso al credito e, quindi, la possibilità di operare. Il rallentamento del prodotto avrebbe alimentato la disoccupazione, che a sua volta, avrebbe allentato la pressione della domanda delle famiglie e ulteriormente frenato l’attività economica, i salari e, infine, i prezzi, secondo la relazione messa in luce da William Phillips nel 1958.

Il principale colpevole della stagflazione veniva quindi implicitamente individuato nell’obiettivo politico keynesiano della piena occupazione, perseguito dalle economie sviluppate nel “glorioso trentennio” postbellico. Quell’obiettivo ostacolava il contenimento dei salari e della domanda necessario ad “accomodare” gli shock di prezzo dell’energia e delle materie prime.

La piena occupazione veniva quindi abbandonata e sostituita dall’assai più prudente NAIRU (non accelerating inflation rate of unemployment): il tasso di disoccupazione “naturale” in quanto abbastanza elevato da impedire – nelle condizioni date per ciascuna economia – l’aumento dell’inflazione. Ma la lotta alla stagflazione condotta attraverso l’utilizzo combinato di politiche monetarie restrittive e flessibilizzazione del mercato del lavoro otterrà risultati inferiori alle attese. Se nella seconda metà degli anni ’90, nei paesi Ocse l’inflazione era finalmente sotto controllo (intorno al 2 per cento), la disoccupazione scenderà sotto il 6 per cento soltanto un decennio dopo, poco prima della crisi finanziaria del 2008 che, però, in tre anni la riporterà all’8,5 per cento. E la crescita economica, che tra il 1960 e il 1973 era stata in media del 5,1% l’anno, nel successivo periodo 1973-1997 si dimezzerà comunque al 2,8 per cento e non accennerà più a riprendersi.

La combinazione di politiche monetarie restrittive, liberismo, compressione dello stato sociale e disoccupazione di equilibrio è dunque servita a frenare l’inflazione, ma non è riuscita a far ripartire crescita e occupazione. E il suo più recente allentamento (quando i rischi di stagflazione sembravano ormai superati) non ha mostrato di poter fare di meglio. I tassi nominali a breve termine sono scesi a livelli prossimi allo zero (talvolta anche al di sotto), ma lo “zero lower bound” non è stato capace di stimolare né i consumi né gli investimenti reali, e ha invece favorito una preferenza per la liquidità e per il risparmio (alla base della cosiddetta “stagnazione secolare”) che, per gli economisti neoliberisti, va imputata ad aspettative razionali non abbastanza attraenti e, per quelli keynesiani, alla debolezza degli istinti imprenditoriali e delle prospettive di profitto, e comunque alla predilezione per investimenti finanziari.

Se non funziona la manovra monetaria non funziona più nemmeno il NAIRU dato che, nell’economia anemica successiva al 2008 la vecchia relazione stabile tra inflazione e disoccupazione non trova più riscontro. La risposta dell'inflazione a un aumento o a una riduzione del tasso di disoccupazione tende ad affievolirsi fino a diventare indistinguibile da zero: l'inflazione non sembra più reagire alle condizioni del mercato del lavoro e la curva di Phillips si mostra sostanzialmente piatta. L’inefficacia dei tassi a livello zero e del NAIRU hanno sospinto le banche centrali in una nuova quanto incerta “grande transizione” fuori dall’ortodossia monetarista, che rimanda ad un nuovo protagonismo economico dello Stato e delle politiche pubbliche. In Europa la transizione si è avviata, con qualche difficoltà, con il Piano Next Generation EU, destinato a reagire alla pandemia da coronavirus. Dunque, già prima dei gravi problemi di offerta, dei colli di bottiglia nelle catene globali di approvvigionamento, dell’invasione russa dell’Ucraina e dell’attuale fiammata inflazionistica internazionale.

Ma la coscienza del superamento del vecchio modello monetarista e la sua sostituzione con un modello nuovo e più adeguato tarda a propagarsi, anche per le pesanti implicazioni internazionali che la sua adozione richiederebbe. In questa situazione, i banchieri centrali, nel tentativo di ripristinare la loro credibilità, sono tentati di procedere a ripetuti quanto inefficaci aumenti dei tassi di interesse, fino a quando le economie sviluppate non vadano in territorio negativo e la disoccupazione non sia tale da gettarle in una vera e propria recessione. Le banche centrali possono dimostrarsi pronte a sacrificare la crescita (per quanto anemica), l’occupazione e il reddito dei lavoratori per proteggere gli altri redditi come se, ai fini della tenuta sociale, salari, profitti e rendite fossero intercambiabili; come se l'austerità monetaria non fosse, come già indicava con icastica chiarezza Ezio Tarantelli, “la corda del boia”.

Ma se già nel 1973 le cause dell’inflazione non erano interne, non consistevano in un eccesso di domanda a fronte di una situazione di pieno impiego della capacità produttiva, a maggior ragione oggi la nuova politica di disinflazione e sviluppo deve far fronte a un’inflazione esogena, che non dipende da un’ipotetica vicinanza al pieno impiego delle singole economie, bensì dalla loro progressiva dipendenza da mal governati mercati globali: assai meno liberi di quel che si crede, e anzi preda di cartelli e monopoli. Ne è esempio lampante il paradosso del mercato dei combustibili fossili che, nella previsione di una riduzione della domanda conseguente alle politiche di transizione energetica, ha visto una riduzione della produzione e un forte rialzo i prezzi. E quello dei microchip o dei container non fa differenza.

L’inflazione attuale non dipende in alcun modo dai salari; soprattutto in Italia dove, come ci ha da poco ricordato l’Ocse, il potere d’acquisto delle retribuzioni è fermo (e anzi si è addirittura ridotto) da trent’anni. L’inflazione non è da domanda ma da offerta internazionale; e dipende dal fatto che il mercato globale è ben lontano da un equilibrio di concorrenza. Una politica monetaria standard di restrizione dei prezzi dal lato della domanda non domerà l'ondata inflazionistica attuale, ma certamente peggiorerà la gravità della stagnazione. Quanto più dureranno i problemi sul fronte dell'offerta (guerra inclusa), tanto maggiore sarà il rischio che essi possano causare effetti secondari rilevanti e un'inflazione sostenuta generalizzata a tutti i paesi sviluppati, con un ritorno delle politiche monetarie restrittive più intenso del previsto, come segnala la Banca Centrale Europea con i recenti e futuri aumenti di tutti i tassi, aggravando le condizioni sociali e pregiudicando la ripresa economica.

È questa la ragione per cui oggi è quanto mai opportuno che il sindacato riproponga a gran voce anzitutto alle imprese e quindi, assieme ad esse, al governo, l’urgenza di obiettivi condivisi di inflazione, occupazione e crescita. L’Italia ha domato l’inflazione degli anni ’70 grazie all’intuizione di Ezio Tarantelli che il valore della moneta è un bene pubblico prodotto in modo congiunto – ma non coordinato – da parte dello Stato (attraverso il fisco e l’offerta di moneta della banca centrale), delle imprese (attraverso la fissazione dei prezzi) e dei lavoratori (attraverso la contrattazione dei salari). Ma quel bene pubblico lo si può governare – soprattutto in presenza di shock esogeni – condividendo obiettivi di disinflazione e di crescita e mettendo in atto comportamenti coordinati e coerenti. Il forte impatto del deterioramento delle condizioni internazionali dell’offerta richiede un coordinamento più stretto ed efficace su obiettivi sociali ed economici sostenibili: un coordinamento “di resistenza e rilancio”, che assicuri la condivisione di un percorso verso obiettivi di autosufficienza, a livello tanto nazionale quanto continentale.

Leonello Tronti, economista e docente Università Roma Tre