Lo raccontano i giornali: meno 19 miliardi nel tesoretto del Pnrr. L’idea del governo è quella di tagliare i progetti per la messa in sicurezza del territorio, la riqualificazione urbana, la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie eccetera. Mentre di questo ragionano in beata solitudine, senza il confronto con le parti sociali previsto dall’Europa, la maggioranza in Parlamento lavora a una “riforma del fisco” pericolosa per la riduzione di gettito e iniqua. E il Mezzogiorno, questo sconosciuto. Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil, ribadisce le ragioni della mobilitazione lanciata dalla Confederazione per il prossimo autunno.

Alla fine, sul Pnrr i problemi sono arrivati al pettine. Non solo ritardi. Innanzitutto, vengono disattese le indicazioni europee sulla governance partecipata. Almeno a livello nazionale il governo decide in solitudine...
La presenza delle organizzazioni sindacali nella cosiddetta "cabina di regia", prevista dal recente decreto Fitto sulla governance del Pnrr, ha – evidentemente - lo scopo di rispettare solo formalmente i regolamenti europei che richiedono il coinvolgimento delle parti sociali. Di fatto, però, si sta aggirando l’applicazione della norma di legge e dei protocolli sottoscritti con il precedente esecutivo, che stabiliscono una vera negoziazione e un confronto preventivo. A conferma di quanto sosteniamo, le due uniche riunioni della cabina di regia cui abbiamo partecipato, tra aprile e luglio, hanno confermato la sostanziale inutilità di quella sede. Ci è stato proposto un metodo di confronto occasionale, estemporaneo, senza elementi precisi per poter esprimere valutazioni compiute e aprire un vero confronto di merito. A queste condizioni, non possiamo parlare di governance partecipata. Il governo, anche su questo terreno, applica lo stesso metodo che caratterizza tutti i tavoli aperti sulle diverse materie. Siamo alla disintermediazione, alla negazione esplicita del ruolo e della rappresentanza del sindacato confederale.

Sul Pnrr, oltretutto, c’è una situazione di totale mancanza di trasparenza non solo verso di noi, ma nei confronti di tutto il Paese: dal Parlamento alla società civile, nessuno sa nulla, nessuno viene coinvolto. Pensiamo alle ipotesi di rimodulazione che trapelano anche in queste ore. Stiamo parlando di un Piano che – non va mai dimenticato - non appartiene all’esecutivo in carica, ma riguarda l’intera società italiana: solo coinvolgendo tutti può essere realizzato positivamente.

Veniamo al merito. Partiamo dai ritardi. A che punto siamo?
Al punto di partenza: dopo nove mesi il governo ha disfatto la precedente struttura di governance del Piano, accentrando tutte le decisioni a Palazzo Chigi, senza però compiere un solo passo avanti nella sua attuazione. Nel frattempo, stiamo ancora aspettando il pagamento della terza rata relativa al secondo semestre dell’anno scorso e si allungano ulteriormente i tempi per la quarta e quinta rata, legate all’anno in corso. Una situazione di stallo, che rischia non solo di compromettere l’implementazione del piano e la messa in discussione delle risorse europee (per quanto ci riguarda vanno spese fino all’ultimo centesimo), ma di creare problemi sia nell’immediato, sul piano dei fabbisogni di finanza pubblica, sia - nel medio periodo - di compromettere la crescita del Paese in un contesto già molto complicato. Si continua a parlare, nella propaganda di governo, di “miracolo italiano”, ma se vediamo i dati della produzione industriale, dell’edilizia, dell’export e, soprattutto, la condizione materiale delle fasce popolari (tra inflazione, aumento dei mutui, questione salariale, welfare sempre più in difficoltà nel curare le ferite del nostro tempo), ci rendiamo conto che la realtà è ben diversa. In questo contesto il Pnrr assume un ruolo decisivo, visto che dalla sua attuazione dipendono i due terzi del nostro Pil da qui al 2026. Tanto per dare l’idea dello stato dell’arte, l’Italia ha speso complessivamente, tra gennaio e maggio 2023 (ultima rilevazione disponibile), appena 1,2 miliardi di euro dei 33,8 programmati per l’anno in corso.

Per ottenere la terza rata si è dovuto rinunciare a 500 milioni destinati all’aumento dei posti letto per gli studenti. Asili, case della salute e così via. Cosa rischiamo?
Rischiamo il fallimento di tutta la programmazione, a cominciare dai capitoli più rilevanti, quelli del piano sociale e occupazionale. La vicenda imbarazzante del mancato raggiungimento del target sui nuovi alloggi degli studenti – che per primi abbiamo denunciato, insieme all’Udu – è emblematica: per mesi il governo ha dichiarato di aver raggiunto l’obiettivo, salvo poi essere smentito dai controlli della Commissione. C’è anche un problema di credibilità e autorevolezza politica che vengono compromesse da atteggiamenti di questa natura. Ma poi pensiamo agli investimenti sulla sanità, in particolare su quella territoriale: siamo a un grado di avanzamento pari all’1% della spesa prevista. E a questo aggiungiamoci anche il definanziamento della spesa corrente previsto dall’ultimo Def. Tutto ciò mette in discussione non solo la missione 6 del Pnrr, ma la stessa tenuta del servizio sanitario nazionale, come abbiamo denunciato con la nostra manifestazione del 24 giugno scorso e come ribadiremo nella mobilitazione delle prossime settimane.

Entro agosto l’Italia deve presentare le richieste di modifiche al Piano, cosa prevedi e che pericoli corriamo?
Proprio in queste ore si sta tenendo l’ennesima riunione su questo punto. Noi diciamo chiaramente al governo: è arrivato il momento di assumersi le proprie responsabilità e di ottemperare al dovere della chiarezza. In sostanza, l’esecutivo deve dire al Parlamento e al Paese quali progetti rischiano di sforare il 2026, quali progetti saranno modificati e soprattutto per quali obiettivi.

Sulla rimodulazione dei contenuti del piano, noi non abbiamo una posizione pregiudiziale: se le revisioni sono necessarie a garantire la realizzazione del piano e l’utilizzo di tutte le risorse stanziate, ma non siamo d'accordo con chi vuole stravolgerlo. Ma a leggere le notizie di queste ore non c’è da stare molto tranquilli. Per quanto ci riguarda, bisogna rispettare gli obiettivi strategici e trasversali: la riduzione dei divari territoriali e delle disuguaglianze; la riconversione ecologica del nostro sistema produttivo; il rigoroso rispetto del vincolo di destinazione di almeno il 40% delle risorse al meridione e delle clausole occupazionali che dovrebbero garantire almeno il 30% di nuovi posti di lavoro ai giovani e alle donne, clausola che fino a oggi è rimasta solo sulla carta. Non condividiamo l’ipotesi di eliminare investimenti e progetti per destinare risorse, ancora una volta a pioggia, alle imprese attraverso i crediti di imposta. Una ricetta – quella degli incentivi automatici - che si è dimostrata inefficace, che penalizza soprattutto il Sud e che premia le imprese “come sono e dove sono”. Mentre noi avremmo bisogno di una strategia industriale che trasformi in profondità la nostra struttura produttiva nella direzione della riconversione green, dell’innovazione tecnologica e del rilancio del mezzogiorno”.

Veniamo al fisco. Il Parlamento discute di delega fiscale in assoluta solitudine. Le richieste unitarie del sindacato più volte consegnate e illustrate sembrano non trovare riscontro.
È questa una delle principali ragioni della mobilitazione che stiamo portando avanti. Il governo non solo non dà alcuna risposta alla piattaforma unitaria, ma prefigura una riforma che va esattamente nella direzione opposta: meno progressività, meno fedeltà fiscale, meno risorse per il welfare. Una controriforma che ci porta indietro di 50 anni, e che punta a sancire – definitivamente – la frammentazione e la corporativizzazione del sistema tributario italiano: con disparità di trattamento, a parità di reddito; con un’evasione che non solo non viene contrastata ma che – dopo gli oltre dodici condoni già approvati nei mesi scorsi – viene perfino “legalizzata” con il concordato preventivo; e con lavoro autonomo, impresa, profitti, rendita finanziaria e patrimoniale che vengono tassati meno di lavoratori e pensionati, e tenuti fuori dal vincolo della progressività. In questo modo – oltretutto – i soggetti che ho elencato non concorrono più nemmeno alla spesa pubblica locale.

Dalle tasse considerate "pizzo di Stato", alle richieste di Salvini di azzerarle a chi non ce la fa a pagare, si continua sulla scia della demonizzazione delle imposte. Dove ci porta tutto ciò?
Si mette in discussione la base del patto di cittadinanza e della stessa coesione sociale del Paese, che non può reggersi sulle sole spalle del lavoro dipendente e dei pensionati. C’è un’evasione di massa che sottrae ogni singolo anno qualcosa come cento miliardi alla finanza pubblica (l’equivalente di mezzo Pnrr), ci sono interi settori produttivi che registrano una propensione all’evasione del 70% e che – parafrasando le parole inaccettabili del ministro Salvini e della premier – tengono in ostaggio i contribuenti onesti e lo stesso futuro del Paese. Oltre a un principio fondamentale di giustizia, di uguaglianza e di legalità, questa politica fiscale non ci porta da nessuna parte anche sul piano dell’efficienza economica. Siamo di fronte a un governo che si illude – senza mettere in campo alcuna politica industriale, ma attraverso l’allentamento dei vincoli fiscali e incentivando la precarietà del lavoro – di rilanciare l’Italia puntando sulla parte più arretrata, meno innovativa e a più basso valore aggiunto del sistema produttivo. Questa strategia non è solo ingiusta, è fallimentare.

La maggioranza continua ad avere come priorità la diminuzione delle imposte. Per tutti. Già questa non è una distorsione del dettato costituzionale? E poi, la volontà di riduzione delle imposte non ha come retropensiero la riduzione di tutto il perimetro pubblico, dalla sanità alla scuola, fino alle pensioni?
In questo modo si mina la sostenibilità del welfare pubblico e universalistico. Tanto per fare un esempio: l’evasione fiscale vale 5,5 - 6% del Pil; la spesa pubblica per l’istruzione è il 4% del Prodotto interno lordo. E non penso che la riduzione delle risorse per il welfare sia un effetto indesiderato e collaterale dell’ideologia del “meno tasse per tutti”. Penso piuttosto che sia un obiettivo deliberato: "affamare la bestia", come hanno sempre predicato i neoliberisti, per precostituire le condizioni di un preciso modello sociale, con la riduzione del ruolo e del perimetro pubblico e l’allargamento del privato e del mercato. Non hanno il coraggio di dirlo, ma lo fanno. E non è certo un caso se tutti i paesi che adottano la tassazione piatta hanno – in media – qualcosa come dieci punti di Pil in meno di spesa pubblica per il welfare. Sono convinto che noi dovremmo – anche sul piano culturale – riportare al centro un concetto che una volta i lavoratori conoscevano benissimo: quello di salario indiretto. Dobbiamo ripeterlo come un mantra: il welfare pubblico e universale è reddito concreto; e investire sulla sanità pubblica, sull’istruzione, sulla non autosufficienza vale – anche in termini brutalmente monetari – come un ricco rinnovo contrattuale.

Infine il Mezzogiorno. Le anticipazioni del Rapporto Svimez affermano che i divari tra Nord e Sud rimangono e se non si inverte la tendenza si aggravano. Questo è il primo fallimento degli obiettivi del Pnrr?
Più che il fallimento del Pnrr, sarebbe lo stravolgimento di un obbiettivo fondamentale del piano, quello appunto di ridurre le diseguaglianze e accorciare i divari tra i diversi territori. Se avvenisse, si tratterebbe di un vero e proprio tradimento dello spirito solidaristico con cui l’Unione europea ha reagito alla crisi sanitaria e darebbe fiato a chi vuole tornare alle politiche del rigore e dell’austerità e chiudere in una “parentesi pandemica” una delle fasi migliori delle politiche europee degli ultimi decenni. Noi pensiamo esattamente il contrario, pensiamo che il criterio per valutare l’esito del Pnrr sia proprio la creazione di sviluppo, lavoro di qualità, servizi pubblici all’altezza nelle aree più svantaggiate dell’Italia, oltre naturalmente alla conversione ecologica (di cui – lo dimostra anche quanto sta avvenendo in questi giorni – c’è un’urgenza assoluta) e alla transizione digitale.

Lavoro povero e lavoro precario: emergenze nel Paese ancor di più al Sud. Il governo non sembra interessarsene.
Magari si limitasse al disinteresse, lo dico come paradosso. Il governo riesce perfino a peggiorare la situazione già critica in cui versiamo. Pensiamo alla reintroduzione dei voucher, alla deregolamentazione del tempo determinato, alla liberalizzazione dei subappalti a cascata, solo per fare qualche esempio. Lo stesso attacco al Reddito di cittadinanza ha lo scopo di rendere ricattabili le persone, costringendo soprattutto i giovani e le donne ad accettare un lavoro purchessia, a qualunque condizione contrattuale e salariale. Tutto questo danneggia, ovviamente, innanzitutto il Sud. A parole si dichiarano angosciati dall’inverno demografico e dallo spopolamento delle aree interne, nei fatti non fanno nulla per mettere nelle condizioni le ragazze e i ragazzi di costruirsi un futuro, tutelando innanzitutto il loro diritto a un lavoro sicuro e ben retribuito. Nel frattempo, decine di migliaia di giovani lasciano il nostro Paese per provare a realizzarsi fuori dai nostri confini nazionali. È questo il vero problema, altro che l’invasione dei migranti su cui fanno becera propaganda durante la campagna elettorale per poi nascondere il tema una volta al governo, invece di gestirlo con politiche lungimiranti di accoglienza e di integrazione.

Tutto ciò non fa altro che rallentare l’economia e la ripresa dell’intero Paese. Come si dovrebbe intervenire?
Intanto ritirando il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata. E su questo anche il sistema imprenditoriale, e – in particolare – quello settentrionale, farebbe bene a riflettere su un’illusione che ha coltivato troppo a lungo: l’idea che – sganciando il sistema economico del nord dal resto del Paese – si potesse proiettarlo definitivamente nelle filiere produttive del Centro e del Nord-Europa (Germania in primis). Una strategia che condannerebbe definitivamente il sistema produttivo settentrionale al ruolo di “contoterzista” e di “subfornitore povero” nelle catene del valore altrui; e che comunque, oggi – con tutto quello che è successo nel frattempo (pandemia, guerra, crisi energetica, cambiamento climatico) e con la crisi che sta attraversando proprio il sistema economico tedesco – dimostra ancora di più tutta la sua inconsistenza. La verità è che solo rilanciando la domanda interna nazionale, a partire dal Sud, e facendo leva sulla straordinaria interdipendenza tra l’economia settentrionale e quella meridionale, si può agganciare una prospettiva di crescita solida e duratura per tutti e proiettarci – come grande sistema Paese – in Europa e nel mondo. Ed è anche per questi motivi che quella contro l’autonomia differenziata non è una battaglia del solo meridione, ma una grande battaglia nazionale che deve coinvolgere e mobilitare tutti.