Il 12 febbraio del 1984 il Governo formalizza la proposta di un ulteriore taglio alla scala mobile. Il 14 febbraio viene firmato un accordo separato, pratica ormai in disuso da circa trent’anni. 

Per superare la frattura sindacale il governo interviene d’urgenza attraverso lo strumento del decreto legge, “Ritenuta la necessità e urgenza di adottare misure immediate e temporanee per conseguire il contenimento dell'inflazione nei limiti medi del tasso programmato per l'anno 1984, al fine di favorire la ripresa economica generale e mantenere il potere di acquisto delle retribuzioni”.

Le reazioni

“Nella tarda serata - scriveva il giorno successivo Emanuele Macaluso su l’Unità - è stata confermata la notizia che il governo taglierebbe la scala mobile con un decreto. La cosa è enorme e non ha precedenti (…) Se questo disegno venisse messo in atto ci troveremmo di fronte ad un gesto (…) di eccezionale gravità destinato a provocare inevitabili e legittime reazioni”.

Nello stesso numero del giornale Bruno Trentin, segretario nazionale della Cgil, rilascia un’intervista a Bruno Ugolini.

“Mi auguro - afferma Trentin - che il governo prenda atto della impossibilità di pervenire a una intesa con l’insieme del movimento sindacale sul testo di accordo che è stato proposto. Non c’è che una strada: quella del proseguimento paziente del confronto, per tentare di costruire le condizioni dell’intesa che fino adesso sono mancate. Questo risultato sarebbe probabilmente più facile, se si rinunciasse all’obiettivo di una intesa faraonica, onnicomprensiva. Sono possibili invece, su singole questioni, a cominciare dai temi dell’occupazione, dei prezzi e dei salari, intese anche parziali ma effettivamente eque e soprattutto attendibili. Se il governo invece scegliesse la strada della sfida autoritaria, magari trasformando, come qualcuno suggerisce, questa proposta di accordo in una misura di legge, commetterebbe non solo un atto gravissimo, dal punto di vista della legittimità costituzionale, ma anche un gesto che farebbe venir meno ogni sua attendibilità come interlocutore del movimento sindacale”.

Il 28 febbraio Bruno Trentin scriveva sui suoi diari:

E così la grande rottura si è consumata con l’accordo separato del 14 febbraio. La Federazione sindacale unitaria non esiste più - i rapporti con la Cisl e la Uil sono peggiori che all’inizio degli anni ’60 - vent’anni! E nella Cgil non esiste più l’unità pragmatica che bene o male ha retto in tutti questi anni. La scissione non è impossibile. Tutte le forze liberate dall’atto di forza del governo (…) sono oggi proiettate lontano da una spinta che sembra inarrestabile. Si riscoprono vecchie, sepolte identità. Si distrugge in poche settimane un patrimonio di idee, una cultura che pure era stata con tutte le sue improvvisazioni, le sue contraddizioni e le sue ambiguità un risultato autentico dell’esperienza unitaria di questi vent’anni.
La divisione appare gratificante. Ognuno è fiero della sua limitatezza e la riscopre come forza. Diventiamo tutti un’orda di handicappati frenetici, senza occhi, senza gambe, senza cervello ma fieri della nostra autenticità, della nostra mutilazione incontaminata. 
Le amicizie si distruggono, la più sordida delle diffidenze diventa una saggia regola di autodifesa e di vigilanza, la fiducia nell’altro, la scommessa sull’intesa e sul fatto creatore dell’unione fra diversi diventa l’avventurismo senza principi di schiacciare nella culla. Non so se ci troviamo di fronte ad un processo irreversibile, se tutto è consumato e se domani occorrerà davvero ripensare tutto da zero, a partire, magari, dalla frattura di un sindacato paracomunista. Sarebbe la conclusione tragica di tutta la nostra vita (…) una angoscia più diffusa (che nel 1948) sulle implicazioni della crisi dell’unità sindacale, anche perché manca del tutto una prospettiva salvificante e una visione totalizzante della liberazione. So soltanto che si apre un periodo in cui ogni forma di opportunismo (verso la logica di organizzazione, il rigurgito settario, la collera delle masse, il sano istinto di classe, o la difesa del partito, dell’organizzazione prima di tutto) tende a diventare dominante e in cui lo scontro si diffonde fra opportunismi di segno opposto, fra conformismi di diverso colore. Le contese più sofisticate, le battaglie di idee fatte di conflitto e di ricerca sono spazzate via e lasciano il posto, come fosse un dato ineluttabile, alle invettive più grossolane, alle falsificazioni, alle semplificazioni più gratificanti. Scende la notte su ogni tentativo di riflessione e semplicemente di conoscenza, di quanto sta accadendo.

Contro il decreto di San Valentino la Cgil - nonostante le sue divisioni interne - si mobilita. Il 24 marzo la maggioranza della Confederazione organizza a Roma un’imponente manifestazione cui partecipa circa un milione di persone. A maggio il decreto viene convertito in legge. 

Il referendum

Agli oppositori rimane un’unica arma: il referendum. La raccolta firme è promossa dal Pci e da Democrazia proletaria, mentre la Cgil, immersa nella grave crisi dovuta alla spaccatura con i socialisti e al collasso della Federazione unitaria, assume una posizione attendista. Il referendum si terrà nel giugno 1985. 

Vincerà, con una differenza di circa l’8%, il no.

Dirà il segretario generale Luciano Lama, segretario generale:

La mia tesi era che si sarebbero dovuti valorizzare questi miglioramenti, e non arrivare allo show down del referendum. Si fece invece il referendum nel quale la domanda, in sostanza, era questa: “Sei d’accordo sul decreto”?. Io ricordo le discussioni appassionanti che ci furono su questa questione, all’interno della Cgil e nel mio Partito, e quelle più dolorose furono per me senz’altro quelle all’interno del Partito. La mia tesi era questa: noi potremmo anche votare contro in Parlamento, perché c’era sempre quella tale questione per cui si attribuivano ai lavoratori responsabilità che non avevano, nel processo inflattivo. Ma tirare la corda, soprattutto dopo che avevamo avuto anche un successo parziale, era un errore, per due motivi: il primo - e per me più importante - era che avremmo compromesso forse definitivamente l’unità sindacale e messo in discussione quella della Cgil - cosa mai avvenuta dal ’45 all’85, perché con i socialisti eravamo sempre stati insieme; e il secondo era che il referendum l’avremmo perso. “Come lo perdiamo?”  mi sentivo chiedere. Tutta la discussione si fece su questo, perché anche qui pareva la solita storia: “Non ci rimette nessuno, ci guadagnano tutti, perché dovremmo perdere?” era la domanda ricorrente. “Ma perderemo - rispondevo io - perché la gente ragiona sulle cose, e capisce che se rimane questo meccanismo che appiattisce i salari e gli stipendi, esso si traduce poi in conseguenze negative sul terreno economico generale: e poi ormai tutta la questione era diventata un simbolo.  Ma non ci fu niente da fare e il mio Partito decise che bisognava fare il referendum - allora le cose andavano così - e io dissi: “Va bene, facciamolo; lo perderemo ma facciamolo.