La lettura, e soprattutto l’interpretazione, delle statistiche economiche forse mai come in questo periodo è controversa e differenziata tra i diversi interessi in campo. L’Istat ha appena proposto il dato di maggio sui prezzi al consumo. Il rialzo complessivo è stato ancora forte, quasi un punto percentuale sul mese precedente e +6,8 per cento su base annua. Non era più stato così dal 1990 e ancora non sono scattati gli effetti del sesto piano di sanzioni, relativo al petrolio, verso la Russia, finalmente approvato dall’Europa.

Il cosiddetto carrello della spesa aumenta di una cifra analoga. Molti pronosticano un parziale riassorbimento della fiammata inflazionistica nella seconda parte dell’anno, nonostante il trend sia ancora in forte crescita. Nelle prossime settimane, inoltre, verificheremo anche gli effetti concreti dell’embargo deciso già da tempo sul carbone, in una fase in cui si sono riattivate molte centrali. Valuteremo le nuove iniziative annunciate per raffreddare l’inflazione e, soprattutto, le ricadute dirette sulle persone. Mi limito solo a sottolineare che qualche incongruenza c’è tra chi chiede di rivedere i parametri economici dei bandi pubblici per contenere questo effetto e, contemporaneamente, afferma che non si può aumentare il salario dei lavoratori. È quindi possibile adeguare le tariffe per le imprese ma i salari per i lavoratori no.

Non si può neanche trattare l’aumento dei beni alimentari come fattore poco influente. I prezzi di molti beni, peraltro, crescono leggermente meno solo perché calano gli acquisti. A redditi inalterati i consumi si concentrano sull’essenziale e anche questo dato deve essere correttamente interpretato, perché la crescita in valore sull’acquisto dei prodotti (costano di più) è contestuale a un calo della quantità acquistata e al calo della sua qualità. È anche per questo che non è riproponibile una vecchia teoria che prescrive: “Non aumentare la spirale inflattiva con la rincorsa dei salari”. Se ne potrebbe teoricamente discutere se i salari italiani fossero cresciuti almeno nella media europea, ma sono troppo bassi e per questo vanno comunque adeguati non con una tantum. A maggior ragione, dunque, un’inflazione così alta, cioè una tassa inversamente proporzionale sui salari bassi, che produce effetti molto gravi, deve essere compensata, come accade in altri Paesi europei dove l’adeguamento è già in atto.

La seconda notizia di rilievo è che il Pil del primo trimestre 2022 non è calato, ma anzi è aumentato. Nonostante l’Istat affermi che non è la prima volta che una così ampia revisione del dato viene effettuata, ammetto una certa sorpresa. Non fosse altro perché nel corso di questi mesi è stato annunciato continuamente, da parte delle associazioni di impresa, che la produzione era in calo, che per almeno un quarto delle aziende sarebbe stata molto rilevante e che esistevano rischi di blocchi. Mentre, al contrario, i dati ufficiali restano positivi, almeno fino al mese di aprile, differenza non da poco, peraltro richiamata da alcuni organi di informazione.

Lo stesso meccanismo può essere utilizzato per il confronto sui dati relativi al lavoro. Si ragiona solo sui numeri totali e non sulla loro qualità. C’è poca attenzione al fatto che la precarietà è al punto più alto dal 1997, e che abbiamo il record negativo europeo di part time involontario a pari merito con la Romania, così come gli inattivi, e dunque la disoccupazione reale è più alta di quella ufficialmente prevista. Eppure i dati sulla povertà dimostrano che, se oltre alla quantità anche la qualità del lavoro soffre, crescono diseguaglianze e lavoro povero e quindi si amplia l’area della povertà relativa.

Molta attenzione, invece, viene puntata sul fatto che in alcuni settori non si trova manodopera, con l’indicazione anche del responsabile - il reddito di cittadinanza - e il ragionamento conseguente che “le persone non hanno voglia di lavorare e preferiscono il divano”.  Eppure, anche nell’anno della crescita straordinaria del Pil, oltre il 6 per cento nel 2021, la povertà assoluta è rimasta, come numero di cittadini, quasi identica al periodo della pandemia; vuol dire che neppure con una forte crescita, senza altri interventi, ci si riesce a sollevare da quella condizione, ecco perché deve operare il reddito di cittadinanza e contestualmente devono aumentare i salari.

Ma una lettura di parte tende a non far apparire i dati oggettivi sulla composizione di percettori di reddito di cittadinanza che potrebbero effettivamente lavorare e sulla loro qualificazione. Si glissa sul fatto che ai lavoratori vengono offerte condizioni di lavoro disagiate a scarsissima remunerazione, con frequenti vuoti di attività. Ed è diminuito il periodo di compensazione legato alla disoccupazione, peraltro un criterio che, quando fu introdotto, ebbe il consenso di molte delle imprese che adesso si lamentano. Pochissimi discutono del fatto che in due anni la forza lavoro disponibile è calata di oltre 500 mila unità e che entro 15 anni, senza interventi concreti, il calo sarà quasi decuplicato; che da anni sono bloccati i decreti flussi per i migranti e che ogni anno circa 100 mila cittadini italiani emigrano verso altri Paesi.

Potrei continuare, ma bastano questi esempi per dimostrare perché raccontare un interesse di parte come se fosse la realtà dei fatti può forse servire alla propaganda, e a volte ad agevolare forse qualche beneficio, ma non aiuta a risolvere concretamente problemi che, anno dopo anno, tendono ad aggravarsi.

Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio