Vengono avanzate molte osservazioni, preoccupazioni e critiche relativamente alla presenza pubblica nell’economia. La situazione è eccezionale e vede da tutti richieste di misure altrettanto straordinarie da parte dello Stato. Contemporaneamente, però, molti affermano che questi interventi debbano avere non solo caratteristiche di temporaneità, ma soprattutto di non intromissione nelle gestioni aziendali.

Oggettivamente le crisi hanno sempre coinciso con un allargamento del perimetro pubblico, o per acquisizione diretta in settori fondamentali o per la corresponsione di finanziamenti. Gli indennizzi sono necessari, le quantità già stanziate sono straordinarie anche se pro-capite risultano insoddisfacenti e nel frattempo serviranno e sono previsti ulteriori stanziamenti, ma la necessità è iniziare a ricostruire quello che si è perduto, perché per dare una prospettiva economica al dopo-pandemia, bisogna non restringere più di quanto è già avvenuto, la nostra base produttiva. Come farlo oltre all’intervento privato che però si stenta ad intravedere?

È rispondendo a questa domanda che si può più concretamente discutere, senza riproporre dibattiti figli di altre epoche e condizioni, su quale debba essere l’intervento pubblico in economia. Occorre dunque aprendo una verifica che riguardi sia la futura produzione (offerta) che le nuove condizioni per i consumi, con una domanda che durante la pandemia non solo è calata ma è cambiata e che strutturalmente risentirà nel futuro di questi cambiamenti. L’economia italiana era già in rallentamento prima del Covid, poi il calo è diventato enorme, più accentuato nei servizi rispetto alla manifattura, con una tenuta migliore per le esportazioni rispetto ad una domanda interna fortemente diminuita. Nell’ultimo anno si sono persi circa un milione di occupati, una voragine in un paese a basso tassa di occupazione come l’Italia e la precarietà e il lavoro povero sono aumentati. A livello di impresa, gli effetti prodotti sono altrettanto gravi ma diversificati e in parte preponderante collegati alla loro classe dimensionale (che molto spesso significa contemporaneamente bassa qualità del prodotto, scarsa capacità di esportazione, poca innovazione e acquisizione tecnologie, assenza di commercio elettronico, altissima dipendenza dal credito).

A fine 2020, quasi un terzo delle imprese considerava a rischio la propria sopravvivenza, soprattutto le aziende di piccola e piccolissima dimensione, e solo 1 su 5 riteneva di non aver subito conseguenze dalla crisi, accentuando una divaricazione già esistente. Addirittura il 45% delle imprese italiane dichiara che nel futuro potrebbe essere a rischio se esposta ad una nuova crisi di carattere esterno.

Per modificare questo scenario, oltre alla fondamentale campagna vaccinale, ci si affida giustamente al ruolo che possono e devono svolgere gli investimenti legati alle risorse del Recovery plan, ma esistono anche altre possibilità di rilievo e risorse prossimamente disponibili, oltre alla prevedibile proroga della moratoria sui rimborsi dei finanziamenti già ricevuti. Il decreto rilancio mette a disposizione di Cassa depositi e prestiti oltre 40 miliardi per ricapitalizzazione di imprese con fatturato annuo superiore ai 50 milioni di euro.

Questa iniziativa è possibile nel nuovo quadro temporaneo che l’Europa ha deciso relativamente agli aiuti di Stato (2021 e forse una parte del 2022), oppure a condizioni di mercato, cioè attraverso il co-investimento con un privato che partecipi almeno al 30%. È ampio il panorama di imprese interessate, tutte quelle considerate strategiche o di rilevante interesse nazionale, ed altre. Il principale vincolo esterno è rappresentato da un parere della Commissione europea per le operazioni superiori ai 250 milioni.

Il punto di scelta riguarda quindi, oltre l’ammontare dei singoli interventi, prevalentemente il merito: per quali investimenti, per quale perimetro di attività, per quali ricadute sul lavoro in quantità e qualità. Le risorse di queste ricapitalizzazioni devono essere legate alla gestione delle necessarie trasformazioni industriali ed incentivare la reattività al cambiamento. A quel punto però, sia pure in forme diverse, il capitale pubblico è parte integrante del capitale di alcune migliaia di imprese, tramite la sua banca di investimenti. Come? Attraverso prestiti subordinati, prestiti convertibili in capitale o azioni, ingresso diretto come investitore di riferimento a lungo termine, garantendo anche la presenza di altri investitori.

Non si tratta quindi né di acquisizioni, né di gestione diretta, ma c’è chi sostiene che anche questo significhi politicizzare di per sé la gestione di impresa. Non credo sia così e dove il meccanismo sarà consensualmente attivato, è difficile sostenere che chi investe non abbia voce in capitolo almeno su alcune scelte fondamentali, in quanto detentore di quote importanti di capitale. La prima delle quali, memori dei danni provocati dalla finanziarizzazione è l’acquisizione di imprese valide, a prezzi di saldo, con meccanismi speculativi o con l’unico scopo di trarre profitto a breve attraverso smembramenti o delocalizzazioni.

Sarà per questo decisivo un ruolo più generale di Cdp che però, per sua natura, è un veicolo prevalentemente finanziario anche se investitore stabile e di lungo periodo. Serve uno strumento che si occupi di politiche industriali e di sviluppo, con sempre al centro la priorità dell’occupazione, dentro la Cassa o attraverso un’agenzia per lo sviluppo. Quando parliamo di infrastrutture, materiali ed immateriali, decisive per recuperare ritardi strutturali, dobbiamo ricordarci che il ruolo pubblico è sempre stato fondamentale e che invece i privati non sempre hanno dimostrato di essere all’altezza della realizzazione delle opere e successivamente della positiva gestione di queste reti. Anche se –naturalmente- nella realizzazione delle infrastrutture paese è auspicabile una concreta presenza di investimenti e capitali privati, in questo caso con molta più voce in capitolo. Un quadro composito ma necessario.

Appena si avanzano queste considerazioni, si viene accusati di voler ricostituire l’Iri. Spesso da parte di coloro che affermano che dopo la pandemia i danni da recuperare sono come quelli di una guerra. Con una differenza di fondo: dopo una guerra bisogna ricostruire, dopo una crisi bisogna salvare e riconvertire gran parte dell’esistente.

Occorrerebbe allora maggior rigore storico. L’Iri era un ente pubblico con funzioni di politiche industriali, nato per sopperire a problemi che richiedevano grandi investimenti (aspetto che il Recovery plan può supplire solo in parte) che davano ritorni solo sul lungo periodo. Lo scopo era economico, aspetto mai sottovalutato, ma temperato da finalità sociali con cui ci si faceva carico anche di alcune diseconomie iniziali e di significativi investimenti (long term) secondo obiettivi dello Stato. E’ così che al Paese furono garantiti investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro.

Poi venne il controverso periodo delle privatizzazioni, legato all’ingresso nell’euro: su questo vale la pena solo ricordare l’analisi della Corte dei Conti che, a stagione delle privatizzazioni ormai ultimata, rendeva pubblico uno studio in cui si segnalava come il recupero di redditività delle aziende passato sotto il controllo privato, non era dovuto a maggiore efficienza quanto all’incremento delle tariffe al di sopra dei livelli di altri paesi europei, a cui inoltre, non avrebbero fatto seguito progetti di investimento volti a migliorare i servizi offerti. Lo stesso studio evidenziava anche una serie di criticità sulle procedure di privatizzazione. Differenze ed analogie storiche sono evidenti. Questo porta all’ultima parte di questa analisi. In Italia, il meccanismo di sviluppo è stato caratterizzato in parte sulla grande impresa, ma soprattutto sul sistema delle Pmi che ne costituivano l’ossatura. Considerate vicine al territorio, alle necessità locali della produzione e ancorate alla proprietà familiare.

A lungo un sistema che ha retto. Ma le varie fasi dalla globalizzazione alle crisi straordinarie dal 2008 in poi, hanno cambiato il paradigma. Quando le delocalizzazioni, la pura produzione basata sulla diminuzione dei costi mostrano i loro limiti strutturali, il sistema va in difficoltà e con la pandemia in fortissima crisi. Esisteranno ancora ampi spazi di economia locale, ma molto diversi. Le esigenze per fare impresa sono cambiate e la dimensione, le sinergie tecnologiche e professionali, la capacità e possibilità di accesso al credito cambia e conta molto di più. Non si tratta più solo di acquistare macchinari più efficienti, di fronte alla rivoluzione ambientale, tecnologica ed energetica in atto; bisogna riorganizzare i processi produttivi, cambiare i prodotti e coniugarli con le professionalità necessarie. Processo che può e deve essere sostenuto anche da una funzione trainante della grande impresa, a partire da quelle pubbliche.

A questo proposito, l’attuale situazione delle imprese pubbliche ha non solo dimensioni importanti e in crescita ma il loro potenziale non sempre è utilizzato a pieno e il problema più evidente è che non gli viene affidato anche un obiettivo paese. Molte sono quotate in borsa, in alcuni casi hanno partecipazione diretta da parte del Mef, in altri casi, la presenza è affidata a Cdp; esiste poi un altro nutrito pacchetto di aziende non quotate la cui partecipazione è al 100% o con il possesso di quote maggioritarie da parte del pubblico. Si potrebbe quindi rafforzare questo ruolo generale dell’impresa pubblica. Se la decisione fosse quella di creare una rete di queste potenzialità, pur nell’autonomia delle singole aziende, con la definizione di compiti strategici, l’impatto del ruolo pubblico nell’economia sarebbe molto più rilevante sia per le potenzialità produttive, sia verso le infrastrutture che per l’innovazione tecnologica e per l’occupazione; ma anche per le sinergie con un sistema produttivo frastagliato come l’attuale.

Le aziende pubbliche operano in tutti i principali settori strategici che la Commissione europea ha indicato, sono già dotate di un importante know how e possono essere il propulsore di un importante processo produttivo che riguardi gran parte delle Pmi italiane. In particolare, questo ruolo di incubatore potrebbe facilitare la rinascita di distretti produttivi (ricordiamo il ruolo positivo dei distretti industriali in gran parte disperso) in grado di fornire le dotazioni tecnologiche, la necessaria logistica, una prospettiva produttiva di medio periodo necessaria per l’accesso al credito, le professionalità di cui tante imprese non sono autonomamente in grado di dotarsi.

Un processo virtuoso in una logica Paese. Un modo, secondo me, nuovo e moderno di parlare di rapporto tra pubblico e privato nell’economia, creando un reticolo articolato che dà ampi spazi per un privato che voglia partecipare, investire, non essere assistito.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio