Il 21 ottobre del 1945 anche il Vaticano si dimostra favorevole al suffragio femminile, affermando papa Pio XII in presenza delle presidenti del Cif (Centro italiano femminile, nato nell’ottobre del 1944 come collegamento di donne e di associazioni di ispirazione cristiana, per contribuire alla ricostruzione del Paese): “Ogni donna (…) senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione”.

A differenza di molti altri stati, in Italia il suffragio femminile non viene introdotto dopo la prima guerra mondiale. Dichiarava Benito Mussolini in un’intervista a Le Journal nel novembre del 1922: “C’è chi dice che intendo limitare il diritto di voto. No! Ogni cittadino manterrà il suo diritto di voto per il Parlamento di Roma … Consentitemi anche di ammettere che non credo estendere il diritto di voto alle donne. Sarebbe inutile. Il mio sangue si oppone a tutti i tipi di femminismo quando si tratta di donne che partecipano alle questioni statali. Certo, una donna non dovrebbe essere una schiava, ma se le do il diritto di voto, sarei ridicolo. Nel nostro stato, non dovrebbe essere considerata”.

In parte contraddicendo il suo capo, il 22 novembre 1925 il fascismo faceva entrare in vigore la legge n. 2125 (nota come “il voto delle signore”) che per la prima volta rendeva le italiane elettrici in ambito amministrativo. Questa legge fu però resa inutile dalla riforma podestarile entrata in vigore pochi mesi dopo e precisamente in data 4 febbraio 1926: così ogni elettorato amministrativo locale veniva annullato, si sostituiva al sindaco il podestà che insieme ai consiglieri comunali non era eletto dal popolo, ma dal governo. Bisognerà attendere la fine della parentesi fascista e il ritorno della democrazia perché l’elettorato sia riconosciuto anche alle donne.

Un decreto del 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945 n. 23) concede alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, mentre un decreto del 1946 concede alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo (decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74). Le uniche a essere escluse dal diritto di voto attivo sono le donne citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza cioè le prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case dove è loro concesso esercitare la professione.

Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino (Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”. Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito.

Nel 1877, Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata, nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali (nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava  un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo ‘Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici’. La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875).

Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali accolgono (la Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà  l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata).

Così la Corte di appello di Firenze giustificherà il respingimento della richiesta: “Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.

Anche Argentina Altobelli prenderà posizione su La Squilla a favore del voto alle donne, da conquistarsi “non per le viottole contorte delle distinzioni e dei privilegi, ma per la gran via maestra del suffragio universale  concesso a tutti, senza tener conto del sesso, delle condizioni, e anche agli analfabeti” (nel 1904 era stato costituito il Consiglio delle donne italiane, aderente all’International Council of Women. Il Consiglio aveva organizzerà a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane, inaugurato dalla Regina Elena. L’obiettivo è quello di estendere il diritto di voto delle donne della classi più elevate).

Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino propongono un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di una apposita commissione, sarà accantonata.

Dopo la triste parentesi fascista, le prime elezioni politiche in Italia si svolgono nel giugno del 1946, quando la popolazione è chiamata a votare a favore del referendum istituzionale Monarchia-Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente. Ma in realtà già qualche mese prima, alcune donne erano andate alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione saranno elette le prime donne sindaco della nostra storia.

“Questo avvenimento - scriveva l’Unità il 31 gennaio 1945 commentando la riunione del Consiglio dei ministri del giorno precedente nella quale si era discusso del suffragio femminile, approvato come qualcosa di ovvio ed inevitabile - è una grande vittoria della democrazia, giacché una forza politica nuova viene immessa nella vita nazionale (…) si tratta di una scelta validissima di nuovi dirigenti, i quali, particolarmente per quanto concerne i problemi della vita cittadina, della vita locale, hanno l’enorme vantaggio di conoscere e sentire più direttamente i bisogni più immediati dei singoli e delle famiglie. Una ventata di sano buon senso entrerà sicuramente nella vita politica, e nella vita amministrativa entrerà con le donne un maggior spirito di concretezza”.

Il decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945 n. 23 concede alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, mentre il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 concede alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo.

“Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 - ricordava Marisa Cinciari Rodano in occasione della presentazione del libro Le donne della Costituente per la celebrazione del 60° della Costituzione (Roma, 31 maggio 2007) - ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.