In Italia registriamo un femminicidio (ovvero un omicidio di una donna in quanto donna) ogni tre giorni. Si tratta dell’unico reato che non diminuisce, a differenza di tutti gli altri. Il numero rimane costante da più di 20 anni, nonostante l’approvazione di leggi importanti come la Convenzione di Istanbul e il Codice Rosso.

Perché è difficile denunciare la violenza subita?

I dati dimostrano senza ombra di dubbio la grande difficoltà delle donne a denunciare la violenza subita e questa difficoltà aumenta ancora di più nei casi di molestie sul posto di lavoro. Ma quali sono le cause che ostacolano l’emersione di questo fenomeno così diffuso? Cosa rende le donne così restie a denunciare i soprusi subiti? Sicuramente la motivazione più forte sta in quella che gli esperti chiamano “vittimizzazione secondaria” della donna che denuncia, ovvero l’ambiente ostile in cui si trova la vittima una volta dichiarata la sua condizione e la volontà di uscirne. Tale ostilità, purtroppo, riguarda anche le istituzioni che dovrebbero prenderla in carico - soprattutto in campo giudiziario, Tribunale civile in primis che giudica la violenza un fattore di pertinenza solo penale - al punto che la Commissione femminicidio del Senato arriva a parlare di “violenza istituzionale”.

Questo avviene perché, purtroppo, nel nostro Paese non c’è mai stata una presa di distanza collettiva, o meglio una condanna collettiva, nei confronti di questo odioso fenomeno, generando due effetti collegati: la cessione di parte della responsabilità alla donna della sua condizione e la giustificazione - almeno in parte - del violento.

L'impegno della Cgil

Per questo la Cgil in ogni contesto, a partire da quello istituzionale, ha sempre ribadito la necessità di affrontare il tema con un approccio di sistema, partendo dalla formazione del personale che, a vario titolo, entra in contatto con le donne vittime di violenza e, a tal fine, ha ottenuto che questo sia il tema centrale del piano nazionale anti-violenza varato a marzo.

Oltre alla formazione di tutto il comparto penale, lo scoglio maggiore per le donne in uscita dalla violenza rimane – in caso di minori – il rapporto con il Tribunale Civile e Minorile, che secondo la Commissione femminicidio vede solo il 13% dei magistrati con una formazione specifica. Come Confederazione abbiamo denunciato in ogni contesto l’infondatezza della teoria della Pas (Sindrome da alienazione parentale) che ha generato il moltiplicarsi delle sentenze di “madre malevola”, “ostativa” o, per l’appunto, “alienante”. Oltre all’ennesima sentenza della Cassazione contro la Pas, è di due settimane fa la sentenza della Cedu - la Corte europea dei diritti umani - che condanna l’Italia per aver leso il diritto di una madre a cui è stata sospesa la responsabilità genitoriale e di un figlio, costringendolo a vedere il padre violento, venendo così meno “all’interesse maggiore del minore”.

Inoltre, come componenti del Comitato di parità del Csm, ci è stata affidata una relazione da presentare in tutte le Commissioni sui documenti approvati dalla Commissione femminicidio.

Grazie al turno di vicepresidenza del Comitato nazionale di parità, abbiamo inoltre ottenuto che, in caso di affido “super-esclusivo” (previsto quasi sempre violenza domestica) il genitore possa usufruire di tutti i congedi parentali previsti.

Non ultimo l’impegno costante della Cgil a “fare rete” con i centri antiviolenza e le istituzioni nazionali e territoriali per lavorare tutti insieme a quella presa d’atto collettiva del fenomeno, essenziale per contrastare efficacemente il fenomeno.

Giorgia Fattinnanzi, Politiche di genere Cgil nazionale