L’impatto del Covid-19 sul mondo della migrazione italiana ha determinato immediate conseguenze sul lavoro dell’Inca all’estero: ridisegnandone sia le modalità organizzative (vale la pena ricordarlo, ogni struttura all’estero ha dovuto fronteggiare - Paese per Paese - le diverse disposizioni sanitarie locali e comportarsi in ragione di queste), sia l’aspetto contenutistico. Perché i bisogni e le domande dei nostri assistiti, in questi tempi, sono dettati pressoché esclusivamente dalle conseguenze socio-economiche della pandemia.

Il primo effetto evidente è stato rispetto alla possibilità di spostamento: tra frontiere che progressivamente chiudevano e voli che venivano sospesi o cancellati, l’Inca ha dovuto affrontare fin da subito questo problema, collaborando con le istituzioni italiane, ma arrivando spesso a farsi carico direttamente di situazioni particolarmente emergenziali o a triangolare il proprio intervento con ambasciate e compagnie aeree di altri paesi europei.

Come si è acuita l’emergenza sanitaria, le compagne e i compagni dell’Inca nel mondo hanno svolto un ruolo specifico nel diffondere le informazioni/disposizioni locali nella comunità dei nostri connazionali (soprattutto tra i più anziani) e nell’assistere situazioni anche drammatiche di chi, contratto il virus, non sapeva come comportarsi rispetto al sistema sanitario locale. Anche in questo caso, svolgendo un ruolo di integrazione, supporto e talvolta supplenza rispetto alle nostre autorità in loco.

Ma soprattutto, fin da subito, le nostre compagne e i nostri compagni all’estero si sono resi conto di come la pandemia e il lockdown avrebbero inciso drammaticamente sulle condizioni lavorative ed economiche dei cittadini - in particolare di quelli più deboli, migranti, con contratti precari o spesso lavoratori in nero. Perché - come noto - anche all’estero le chiusure mirate di alcune attività, i lockdown generali, le crisi economiche conseguenti si sono tradotte in perdita di occupazione.

Gli sportelli Inca nel mondo sono stati presi d’assalto da nostri connazionali che avevano perso il posto di lavoro: chiusure forzate (come nel caso della ristorazione e dell’intrattenimento), licenziamenti anche da settori ancora attivi per “ristrutturazioni preventive”, contratti in scadenza non rinnovati, stage interrotti e rinviati sine die, lavoratori costretti al “nero” (che esiste anche all’estero) non più impiegati e retribuiti… da tutti è arrivata la richiesta rispetto agli eventuali ammortizzatori sociali esistenti in loco, alla regolarità o meno dell’interruzione del rapporto di lavoro, all’esistenza di misure specifiche messe in atto per fronteggiare l’impatto economico.

Questo ci ha colpiti, ma non certo sorpresi. Sebbene se ne parli sempre troppo poco, l’Italia è tornata a essere un Paese più di emigrazione che di immigrazione (numeri alla mano: al primo gennaio 2020 l’Aire segna 5.486.081 italiani residenti all’estero e l’Istat 5.306.548 stranieri regolarmente residenti in Italia). E questa emigrazione, prevalentemente giovanile ma non solo, vive spesso di contratti atipici e precari e, spesso, trova lavoro proprio nei settori più colpiti.

Già da prima della pandemia, le domande rivolte al patronato all’estero non investono più solo i temi della previdenza, della pensione: ma riguardano diritti di cittadinanza, di accesso al welfare e alla sanità locali, contratti di lavoro e fiscalità... Non italiane, sia chiaro, ma locali. Un ventaglio di domande - e dunque di competenze necessarie - che si è infinitamente allargato. E che richiede una rete di supporto che va ben al di là del patronato. Ci siamo inventati Itaca proprio per questo, per “andare oltre” il nostro recinto: nei contenuti, nelle iniziative, nelle relazioni. Per entrare in contatto, sostenere e provare a rendere “comunità” anche il mondo della migrazione giovanile.

Questi “nuovi bisogni” non faranno altro che acuirsi. L’impatto economico e sociale del Covid-19 accentuerà il fenomeno dell’emigrazione italiana di massa (ancora: non soltanto giovanile), aggravando il dramma della perdita di una generazione e dello svuotamento/abbandono di intere realtà territoriali. Ma questa emigrazione si rivolgerà a paesi che ora stanno soffrendo una crisi economica - e quindi occupazionale - simile alla nostra. Ed è infatti già iniziato un fenomeno di “rientro senza lavoro”: sono sempre di più, in sintesi, gli italiani all’estero che - persa l’occupazione - rientrano in Italia, sperando di poter contare se non altro sul sostegno del “welfare” familiare.

Da una parte, dunque, aumenterà la spinta all’uscita e dall’altra si avvierà quella al rientro non tutelato, non incentivato da una concreta prospettiva ma solo dalla possibilità di sussistenza. Un “rientro” verso un Paese - il nostro - che non è affatto pronto a riaccogliere chi ha costretto ad andar via. E in questo contesto la difficile ricerca di lavoro porterà ad accettare (sia per chi va, sia per chi torna) condizioni sempre più negative, scarsamente tutelate quando non del tutto irregolari: con il rischio sempre in agguato che ciò possa costituire il terreno ideale per far prosperare le attività gestite dalla criminalità organizzata, sia in Italia che nei paesi europei dove ha ormai esteso i propri tentacoli.

Ecco perché, dunque, è ormai indispensabile far emergere in tutta la sua portata il fenomeno migratorio italiano e non permettere che sia nascosto come polvere sotto al tappeto. Perché è intimamente legato alle condizioni di crescita e di sviluppo del nostro paese e, nell’immediato futuro, lo sarà ancora di più. Nelle sue politiche, la Cgil ha una spiccata sensibilità e un profuso impegno concreto sul tema fin dal secondo dopoguerra - impegno e attenzione ribadite dal segretario generale Maurizio Landini, che poche settimane prima dell’esplosione della pandemia ha incontrato e dialogato personalmente a Bruxelles con le ragazze e i ragazzi della “Nuova Emigrazione” italiana.

Nella sua attività anche all’estero, l’Inca continuerà nel suo profondo e anche coraggioso processo di rinnovamento; consapevoli che - se non lo avessimo iniziato per tempo - il Covid ci avrebbe reso molto più difficile essere il punto di riferimento per migliaia e migliaia di nostri connazionali all’estero e non lasciarli soli davanti a tutte le conseguenze drammatiche create dalla pandemia.  

Andrea Malpassi, coordinamento Area Migrazioni e mobilità internazionali Inca Cgil