In occasione dei suoi primi 15 anni la Società per l’Enciclopedia delle donne indice un concorso di racconti dal titolo Peccato di scrittura, che ha per tema il lavoro, promosso in collaborazione con la Cgil di Milano e l’Archivio del Lavoro. Con la direttrice Rossana Di Fazio abbiamo provato a capire perché è importante una narrazione di genere. 

Come nasce il progetto dell'Enciclopedia delle donne?
L'Enciclopedia delle donne è nata da un'iniziativa mia e di Margherita Marcheselli nel 2010. Noi due lavoravamo insieme in editoria, proprio nell'ambito dell'alta divulgazione, e ci siamo rese conto che si registrava una sorta di ignoranza cosmica su tutto quello che riguardava e che riguarda la presenza pubblica delle donne come parte attiva della società. E questo è un grave problema di cui risentiamo ancora oggi. Noi donne non siamo una minoranza, eppure così veniamo trattate. Si continua a “scoprire” le donne come se fossero un caso, un’eccezione. Allora si dedica tutta l’attenzione a quella particolare artista, scrittrice (vedi il caso di Goliarda Sapienza). I media o i personaggi mainstream diventano improvvisamente coloro che ci rivelano l’importanza di quella determinata donna. Bene, ma bisogna capire che la vera falla è nel sistema educativo, nei manuali scolastici, nel sistema editoriale, per cui noi continuiamo a “scoprire” le donne, cioè a scoprire qualcuno che c'è sempre stato e che ha sempre svolto un ruolo attivo nella società, anche qua questo ruolo non le veniva riconosciuto.

Leggi anche

Negli ultimi tempi si moltiplicano le iniziative che puntano a colmare un gap storiografico enorme. La storiografia di genere però, per quanto necessaria, non presenta dei rischi? A meno che non la consideriamo uno step intermedio per arrivare a una narrazione che sia davvero universale e democratica.
Questa è una domanda molto importante. L’oblio non fa un lavoro passivo, non è polvere che cade casualmente. Al contrario è un’operazione voluta di rimozione. Oggi viviamo una fase di nuova consapevolezza, che ha dato vita a progetti come quello dell’Enciclopedia, inteso anche come genere letterario teso alla divulgazione. E dunque, nel nostro caso, teso a colmare il gap profondo che esiste in questo campo. Noi abbiamo iniziato con un campione di 100 voci, oggi ne abbiamo circa 2300. Si è formata una rete di autrici e autori che arriva a 850 persone, l'Enciclopedia viene consultata da una media di 100.000 persone al mese. Questi numeri ci parlano di un’esigenza specifica. Quando all’inizio proponevamo il nostro progetto editoriale – prima di decidere di autoprodurci - in molti ci rispondevano “ma nelle enciclopedie le donne ci sono". Ci sono forse in parte. E soprattutto, come vengono raccontate?

A questo proposito, si pone il tema del linguaggio e della narrazione. Come facciamo a uscire dalla trappola della riserva indiana?
Io dico “bene” a queste iniziative di riscoperta delle figure femminili che hanno fatto la storia, ma attenzione al fuoco amico. Ovvero, attenzione a come la costruiamo questa narrazione delle donne. Perché se usiamo espressioni come “donna eccezionale”, per esempio, rischiamo di confinare quel personaggio alla categoria di eccezione che conferma la regola. E invece dobbiamo far emergere con forza che quella donna non è stata l’eccezione, che non ha agito da sola, ma che si è mossa all’interno di un contesto in cui, insieme ad altre donne, già provava a scardinare dei meccanismi consolidati. Emblematico è il libro che abbiamo pubblicato quest’anno di Debora Migliucci, Roberta Cairoli e Roberta Fossati Vogliamo Vivere, sui gruppi di difesa delle donne a Milano, che erano il corrispettivo dei Gap. Si trattava di un’organizzazione capillare e nutrita, eppure abbiamo dovuto aspettare la prima presidente donna dell’Anpi, Carla Nespolo, perché ci fosse la spinta a raccontare questa realtà e a darle il giusto peso e valore. 

Leggi anche

La scoperta di tante eccezioni deve trasformare la regola?
Io non accetto chi racconta le donne ancora in termini di eccezionalità, perché conferma una regola che noi dobbiamo assolutamente scardinare, un paesaggio che dobbiamo trasformare. Mi piace dire che è come se fosse una carta geografica che a mano a mano si popola e noi non possiamo più continuare a dire che le donne non potevano, le donne non facevano, le donne non c'erano. Le donne c'erano. Solo che nessuno le ha raccontate.

Qui entra in gioco il tema del nuovo femminismo, che oggi ci impone una domanda: come superare la logica delle quote rosa, della “specie protetta”?
Dobbiamo fare un grande lavoro politico e culturale, e anche di autocritica. Un ruolo decisivo lo ha giocato la stagione delle sociologhe, negli anni settanta e ottanta. Studiose come Anna Bravo, Marina Piazza con i loro testi hanno giocato una partita decisiva per la trasformazione di tutta la società. Secondo me è questo che dobbiamo ricordare alle nostre compagne e ai nostri compagni che credono si tratti solo di un problema di tetto di cristallo o di arrivare nei luoghi decisivi. Non si arriva nei luoghi decisivi con le stesse idee di quando non ci potevi arrivare. L'Enciclopedia in questo senso è una miniera pazzesca, perché racconta come questa consapevolezza fosse già chiarissima in tempi molto lontani, e ha continuato a maturare. Per questo secondo me è fondamentale che ogni generazione abbia le sue parole, il proprio lessico, per raccontare la propria storia. Noi abbiamo pubblicato da poco un testo di Marina Piazza che raccoglie e rilegge alcuni suoi interventi alla luce dell'oggi. Marina Piazza si è concentrata moltissimo sul tema del lavoro – così come anche Laura Balbo -: i tempi di lavoro, il doppio ruolo, il lavoro come forma di emancipazione.

Proprio per questo lo avete scelto come tema del concorso Peccato di scrittura?
Il lavoro è quella dimensione che ci consente di organizzare la tua vita concreta, di raggiungere l’indipendenza economica, svincolandoci da una tradizione familiare. Gli scritti di sociologhe come Laura Balbo e Marina Piazza ci hanno fatto riflettere per la loro incredibile attualità, rispetto a come il lavoro può divenire un elemento centrale per la definizione dell’identità femminile. E allora ci siamo chieste: in che modo? Questo premio risponde, da una parte, al desiderio di raccogliere della documentazione, infatti al progetto aderisce anche la Fondazione Badaracco, che proprio di documentazione delle donne fa la sua missione. Dall’altra all’idea di raccogliere delle storie – immaginarie o reali- che permettano di tessere una trama collettiva. Il lavoro stesso è, di per sé, uno strumento per uscire dall’isolamento, per stare insieme. E questa cosa ha un'importanza talmente enorme che forse abbiamo voluto un po' riprodurla: raccogliere le nostre storie per tenerle unite, anche quando sono molto diverse.

Leggi anche