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“Marta non aver paura di tirare un calcio di rigore”. Dodici anni e un grande sogno: giocare a calcio nella nazionale. Ma la giovane protagonista di Marta vuole giocare dovrà scontrarsi con pregiudizi vecchi come il mondo, secondo cui il calcio non è per le femmine. Finite le riprese del corto di Matteo Quarta che racconta il gender gap attraverso la prospettiva dello sport. Nel cast Fortunato Cerlino e Lucia Lorè, accanto alla giovanissima Giulia Coppola. Il corto è una produzione CMA Creative Management Association, Halibut Film e Movi Production.
Matteo Quarta, com’è nato lo spunto di trattare la tematica del gender gap attraverso la lente dello sport?
Ci sono una serie di ragioni. La prima è che in generale mi è molto cara come tematica, con la mia società di produzione ci occupiamo spesso di tematiche sociali. Ci interessa raccontare quelle situazioni in cui si verificano delle mancanze di equilibrio nei rapporti di forza fra le persone. Per questo ci interessano tutte le disparità: quella di genere, ma anche le storie di migrazioni. Collaboriamo con Medici Senza Frontiere, realizzando reportage sui salvataggi in mare e l’assistenza ai naufraghi.
Affrontare il tema del gender gap da un punto di vista maschile. Com’è stato?
Abbastanza critico nella prima fase, perché ero consapevole di approcciare la tematica da una posizione dominante, in quanto uomo. E, dunque, il timore di cadere nel mansplaining. Per questo quattro anni fa, quando ho cominciato a pensare a questa storia, ho deciso di dedicarmi per diversi mesi a intervistare una serie di donne, sia conosciute che sconosciute, provenienti da ambienti culturali, sociali e lavorativi molto diversi. Volevo provare a capire in quali modalità e in quali momenti, ripercorrendo la loro vita, avessero avvertito in maniera netta quella sorta di pugno allo stomaco che è il gender gap. Mi interessava che mi spiegassero cosa avessero provato a sentirsi dire “questa cosa non la puoi fare, ti è preclusa per il solo fatto di essere donna”.


Mentre lavorava al progetto si stavano giocando i mondiali. Lei è anche un appassionato di calcio femminile.
Sì, lo seguivo già a prescindere il calcio femminile, perché ho da sempre percepito la forza rivoluzionaria di questo sport. Le donne e il calcio, le donne alla guida: sono talmente tanti gli stereotipi, che questo corto mi sembrava un’ottima occasione per provare a sfatarne qualcuno. Più di una delle donne intervistate ha condiviso esperienze di discriminazione legate allo sport, situazioni di dileggio vissute. Donne adulte che non hanno mai dimenticato. Ho scritto la sceneggiatura durante i mondiali di calcio femminile, dunque un periodo di forte attenzione mediatica. Ma erano gli stessi giorni in cui moriva mia nonna, che per me è stata una vera e propria eroina. Dopo una vita di violenze, di botte prese prima dal padre e poi dal marito, dopo la morte di mio nonno ha finalmente fatto la sua personale rivoluzione. La chiamavamo la nonna viaggiatrice, perché ha trascorso i suoi venticinque anni da vedova a riprendersi tutto quello che le era stato negato dal patriarcato. A partire dalle piccole cose, come uscire a fare le spesa.
Protagonista del corto è Marta, una dodicenne che sogna la nazionale di calcio. È preoccupante che gli stereotipi di genere nello sport persistano ancora tra i più giovani. Vi siete confrontati con questa realtà in cui persino per i ragazzi è normale che le calciatrici vengano pagate meno dei calciatori?
Fa molta impressione. Mentre giravamo ci siamo confrontati con tantissimi adolescenti, perché siamo riusciti a fare le riprese anche grazie al profondo sostegno delle istituzioni locali e delle scuole calcio. Ho chiacchierato lungamente con molti ragazzi, perché volevo sapere quali fossero le loro opinioni, oltre che prepararli alle scene. E loro effettivamente hanno ammesso che se per davvero una ragazza si fosse avvicinata non l'avrebbero fatta giocare. E però la storia di Marta – una trama di finzione ma basata su elementi di realtà – ha poi smosso in loro qualcosa, soprattutto invitandoli all’immedesimazione. Gli dicevo di provare a immaginare la situazione a parti rovesciate, di mettersi nei panni di una ragazza per provare a empatizzare. Dicevo loro: “immagina di essere una persona che ama giocare a calcio. La mattina ti svegli ed esci da casa col pallone perché è l'unica tua passione, e immagina che qualcuno ti dica che non lo puoi fare, perché a prescindere non sei capace di farlo. Prova a capire cosa può significare per te”. Questo tipo di esercizio all’inizio li ha lasciati perplessi, ma li ha spinti a riflettere.
Marta vive una doppia difficoltà: è osteggiata dal contesto sociale e culturale, ma anche da quello familiare. Come avete lavorato per costruire la figura del padre, contrario al fatto che lei giochi a calcio?
Nello sviluppo del personaggio di Antonio c’è principalmente il sentimento di paura, il timore che uno spazio ritenuto sacro dal maschio italiano medio possa essere violato, come se ci fossero dei diritti acquisiti su questo sport. Proprio per questo è difficile decostruire, soprattutto quando si tratta di uomini di una certa età. E tuttavia, come ritiene il transfemminismo, il patriarcato non si muove mai da solo, è sempre legato ad altri elementi propri di una visione culturale. Per esempio pensiamo ai migranti, a una concezione del mondo a misura di maschio e di occidente, in cui tutto ciò che non appartiene a una di queste due categorie è automaticamente di serie b. Attraverso il personaggio di Antonio volevo raccontare la paura del maschio e anche una visione del mondo basata su stereotipi granitici e secolari: il calcio non è uno sport per femmine, le donne non sanno parcheggiare, devono stare a casa, eccetera. E ancora: se una donna gioca a calcio è lesbica. Alla fine del corto citiamo una serie di affermazioni che sono state davvero fatte da alcuni vertici calcistici. Ricordo quando Tavecchio, ex presidente della Figc disse “Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l'aspetto della resistenza, del tempo, dell'espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili”. E ancora: “ Da noi arriva “Opti Pobà”, che prima mangiava le banane, e noi lo facciamo giocare titolare nella Lazio".
Pensiamo alle calciatrici pagate meno dei calciatori. La disparità salariale è un fenomeno fatto di indicatori molto complessi, ma nel caso specifico fornisce un'interpretazione nuda e cruda della disparità di genere: ti pago di meno perché vali di meno.
Sì, c'è questo e c’è il mero capitalismo, il cinismo del profitto: il calcio maschile è più, come dire, connaturato alla società italiana, più seguito. Dunque produce maggiori profitti, concentra la maggior parte delle risorse, degli sponsor. Eppure non c'è nessun indicatore scientifico o estetico che dica che il calcio femminile è peggio di quello maschile. Ma continua a innescarsi un circolo vizioso difficile da rompere. Alcuni uomini, come me e mio padre, hanno fatto un percorso. Per molti, purtroppo, il calcio – e molte altre cose – sono ancora una prerogativa del maschio.