La zona d’interesse, capolavoro di Jonathan Glazer, premio Oscar come miglior film internazionale, forse è il film definitivo sull’Olocausto, di sicuro segna il punto nella rappresentazione cinematografica della Shoah. La storia del comandante di Auschwitz, Rudolph Höss, e della sua famiglia che vive vicino al campo di sterminio, coltivando fiori e crescendo i bambini all’aria aperta, è già un instant cult nel senso che è stato ormai visto – in Italia più di 500.000 spettatori – e amato, incensato, perfino respinto. Comunque storicizzato.

È un film con cui bisognerà fare i conti, da qui in poi, come fu Il figlio di Saul di László Nemes, ossia il titolo precedente che riscriveva questo cinema, offrendo la prospettiva di un membro del sonderkommando sempre ad Auschwitz, cioè un ebreo costretto ad assistere i nazisti. Ma fin qui, direi, siamo nell’ovvio, nel già detto e già scritto. L’importanza de La zona d’interesse è ormai auto-evidente e si imporrà ancora di più negli anni a venire.

Il punto allora diventa perché il film ha avuto una tale penetrazione negli occhi e nelle menti, diffondendosi sin dalla proiezione di Cannes (Gran Prix speciale della giuria) e lanciando la sua scalata fino all’Academy. Come tutti sanno, la trovata fondativa è quella di non mostrare mai l’interno del campo di sterminio, restando rigorosamente focalizzati sulla famiglia Höss, tra cui spicca la moglie Hedwig: è un saggio lucido e agghiacciante sull’orrore del fuori campo, che non mostrando il genocidio lo rende ancora più crudele e insopportabile.

La vita della famiglia scorre placida e la donna, quando si ipotizza il trasferimento in altro luogo, perfino si impunta perché stanno così bene lì – nella zona d’interesse di Auschwitz – e i bimbi vivono a contatto con la natura. Banalizzando molto, in estrema sintesi, ecco una traccia che il film consegna: non vedere l’orrore è peggio di vedere.

Qui vale la pena di allargare il discorso sulla rappresentazione generale dell’Olocausto al cinema. Se il film di Glazer è un capolavoro di rottura, infatti, la necessità di vedere e l’opportunità di non vedere percorre in orizzontale alcuni dei titoli più riusciti e meno conosciuti, tutti figli del contemporaneo. Di un’epoca, cioè, che esaurita la registrazione frontale dell’orrore nazista (le immagini dei campi di sterminio) sta cercando un’altra modalità di rappresentazione, che si confronta appunto con l’atto del vedere.

In The Eichmann Show di Paul Andrew Williams, si racconta la trasmissione televisiva della BBC che riprese il processo al criminale nazista Adolf Eichmann nel 1960, quello della “banalità del male”, offrendo così la sua figura in mondovisione agli occhi di tutti. A un certo punto un responsabile del programma chiede uno zoom sul volto di Eichmann, sperando di leggervi qualcosa, un pentimento, un segno, una smorfia. Niente. Il burocrate del genocidio non tradisce alcuna emozione. È la messinscena di ciò che sconcertò Hannah Arendt. Anche qui: non vedere nulla in Eichmann è peggio di vedere.

C’è un altro film, che si chiama La verità negata (titolo originale: Denial), regia Mick Jackson, che cucina la questione dalla lente del cinema americano. La protagonista è infatti Rachel Weisz nei panni di Deborah Lipstadt, professoressa e studiosa che ha intrapreso una battaglia contro lo “storico” negazionista David Irving. Una contesa che portò nel 1996 a un processo paradossale, innescato da Irving per diffamazione, in cui bisognava dimostrare che l’Olocausto fosse avvenuto davvero e non frutto di una montatura.

L’orrido Irving, interpretato da Timothy Spall, in aula espone placidamente la tesi per cui non fu mai iniettato cianuro nelle camere a gas, d’altronde non ci sono prove e non l’ha mai visto nessuno… Di nuovo si fa leva sulla possibilità di vedere, stavolta per foraggiare una negazione crudele e ipocrita: non l’hai visto quindi non esiste. Per fortuna la parte sbagliata della Storia viene infine sconfitta.

Qualche volta, invece, anche ciò che crediamo di vedere può trarre in inganno. Lo rappresenta bene il piccolo film Il mio vicino Adolf, diretto da Leon Prudovsky: siamo in Colombia nel 1960, un anziano ebreo sopravvissuto allo sterminio comincia a credere che il suo nuovo vicino di casa sia Adolf Hitler… Partendo dalla leggenda sulla presunta “non morte” del Fuhrer nel 1945, che sarebbe scappato in Sudamerica, il racconto qui sposta il baricentro e inscena gli equivoci della visione, ricordando che ciò che vediamo non sempre corrisponde al vero.

Vedere e non vedere, insomma: una questione dirimente su cui La zona d’interesse pone una pietra definitiva, negandoci la possibilità di guardare e così elevandola all’ennesima potenza. Non è l’ultimo film sull’Olocausto, ma quello che costringerà a ragionare su come rappresentarlo in modo differente.