Che sarebbe arrivato ai piani alti del palmarès era nell’aria. Ancor prima della cerimonia di premiazione di Cannes 2023 che si è svolta la sera del 27 maggio, dopo dodici giorni serrati di proiezioni e tappeti rossi. Al secondo posto figura infatti The Zone of interest - che si aggiudica anche il Grand Prix - il folgorante film di Jonathan Glazer che racconta l’orrore di Auschwitz dall’altra parte del muro, dove vive nella villetta con giardino fiorito la famiglia di Rudolf Höss, il capitano manager sterminatore.

A soffiargli la Palma d’oro, si fa per dire, è stato Anatomie d’une chute, potente film della regista francese Justine Triet che, il caso vuole, condivida col film inglese la stessa interprete: la magnifica attrice tedesca Sandra Hüller. Lì indaffarata e amorevole moglie del capitano del lager, qui scrittrice di successo, donna e madre fuori dagli schemi. Così anticonformista da finire sul banco degli imputati quando il marito muore, volando dalla finestra della loro casa di montagna.

I riflettori, però, più che sul film si accendono sulla regista. Justine Triet avrà il suo posto d’onore nella storia del festival francese come la terza donna ad aver vinto la Palma d’oro. Prima di lei Jane Campion nel 1993 col magnifico Lezioni di piano e nel 2021 Julia Ducournau - oggi tra i giurati capitanati dallo svedese Ruben Ostlund - per il suo davvero improbabile Titane. Mentre il festival si aggiudica a sua volta la Palma del progressismo avendo chiamato in concorso per questa edizione 2023 ben sette registe donne. Lo ricorda Jane Fonda, introducendo il premio finale: “è storico, ma un giorno sarà normale”. Justine Triet dal palco, emozionata, attacca la riforma delle pensioni di Macron e le politiche neoliberiste del governo che riducono a merchandising la cultura. Applausi ed entusiasmo dalla sala. 

Meno, però, è l’entusiasmo per questo palmarès, davvero poco coraggioso. Che fa scendere al quarto posto, col Prix du jury, un film miracoloso come Les feuilles mortes di Aki Kaurismaki - la nostra Palma d’oro - ode proletaria e pacifista sulle nuove povertà di oggi, per far salire agli onori del premio alla regia il film più convenzionale e barboso del concorso: La passion di Dodin Buffant, del regista di origini vietnamite Tran Anh Hung, che mette in cucina - letteralmente - le vedette francesi Juliette Binoche e Benoit Magimel, alle prese con cibo e amore secondo il consumato adagio. Mentre lo sguardo urticante e acido dell’austriaca Jessica Hausner (Club Zero) sulle derive delle mode alimentari, è stato totalmente ignorato. 

Come ignorato è stato anche il sempre grandissimo Ken Loach che, a 87 anni, con The old oak continua ostinato a raccontarci la speranza in un mondo migliore, dove la solidarietà trionfa e chi sta dalla parte giusta potrà vincere. Vedere quel vecchio pub dove i rifugiati siriani chiacchierano e mangiano insieme alle famiglie inglesi, accomunati dalla stessa povertà e dalla stessa mancanza di futuro, è commozione pura. 

Nel nostro palmarès ideale, del resto, avremmo dato un posto anche al fluviale documentario del cinese Wang Bing, Jeunesse, vitale e sorprendente ritratto dal vivo della gioventù al lavoro nelle fabbriche-città dei distretti tessili in Cina. Come pure avremmo premiato il nuovo film di una decana del cinema francese, Catherine Breillat (L’ été dernier) impegnata anche stavolta nel racconto non convenzionale dell’universo femminile.

Peccato anche per il terzetto italiano rimasto fuori dal palmarès: Alice Rohrwacher con la sua Chimera, Nanni Moretti con Il sol dell’avvenire e Marco Bellocchio con Rapito. Questi ultimi due, però, sono già al cinema. Ed è il pubblico che li sta premiando. Che, poi, al di là dei palmarès, è la cosa che conta davvero.