All’ultimo Festival di Venezia c’è stato un film lontano dai lustrini e dai tappeti rossi, che racconta una tragedia invisibile consumata ogni giorno nell’indifferenza generale: le morti sul lavoro. È Articolo 1 di Luca Bianchini, presentato nella sezione Giornate degli Autori. Un documentario di 53 minuti con una premessa, dalla prima scena: l’intento è uscire dalla retorica della politica e delle istituzioni intorno alle morti sul lavoro e riportare l’attenzione sulle persone. Il film percorre tre vicende umane, due morti col vuoto che si lasciano dietro e una donna vittima di un infortunio che l’ha resa disabile. La proiezione veneziana, un momento potente, non ci è bastata e abbiamo contattato il regista Luca Bianchini per andare più in profondità.

Da cosa è germogliata l’idea per girare Articolo 1?
L’idea era partita un anno prima, prendendo spunto dalla Spoon River di Marco Patucchi su Repubblica: la mia intenzione era proprio andare a vedere cosa c’è dietro questi numeri. Volevo fare un film senza slogan, senza urlare nulla, concentrato solo sulle storie delle persone. È un film di echi: parla di chi non c'è più, tranne una che ha subito un infortunio, Raffaella. Insomma volevo vedere realmente cosa c’è dietro i nomi e i numeri.

Come hai scelto le storie che racconti?
Questa è stata la fase più lunga, impegnativa e dolorosa. Mi sono interrogato su come avvicinare queste persone: sono partito dall’archivio di Patucchi e del magistrato Bruno Giordano. È iniziata una fase di ricerca, parlando di volta in volta con le persone: il criterio è stato quello di non cadere nei luoghi comuni, volevo evitare ogni cliché. Per esempio c’è la convinzione che la maggioranza delle morti sul lavoro avvengano al Sud, alla fine mi sono orientato verso storie che riguardano il Centro e Nord. La parte del contatto è stata difficile e delicata, ho fatto lunghe conversazioni, alcune persone che prima hanno detto sì dopo l’hanno trasformato in no, sono rifiuti che rispetto. Mi sono posto in punta di piedi e nel modo più delicato possibile: ho incontrato i protagonisti uno ad uno, abbiamo passato due o tre giorni insieme, non volevo la classica intervista ma costruire conversazioni e racconti.

Ho notato che i protagonisti delle tre storie li chiami semplicemente col nome proprio.
È stata una scelta precisa: chiamarli per nome è un modo per dare loro un valore simbolico. E non si vedono mai gli incidenti, non li ho voluti mostrare perché volevo solo le persone.

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La prima storia che racconti è quella di Luca, morto sul lavoro. Come ti sei approcciato?
Ho trascorso molto tempo con la moglie. Ho provato a capire cosa è rimasto, dopo la morte di Luca che si chiamava come me, che si è lasciato dietro moglie e bambini. È stata un'esperienza dolorosa, sono sceso con lei in un terreno senza parti, senza domande e risposte, ho cercato di entrare in una sfera di dialogo tra noi due. Anche io mi chiamo Luca, appunto: quando stavamo girando i bambini si sono affezionati a me e mi chiamavano, la più piccola appena sentiva il nome Luca correva dalla mamma, basti questo per dare l’idea della mancanza. Allo stesso tempo la dignità di Lucia è straordinaria, soprattutto ora che deve affrontare il tunnel delle assicurazioni e della burocrazia. Insomma, sono stato con loro parecchi giorni dentro casa.

La seconda storia riguarda una donna che ha subito un infortunio…
Si chiama Raffaella. Lei è stata la prima che ho conosciuto in ordine cronologico, mi è subito sembrato importante ottenere la testimonianza di una persona rimasta viva. Lei è una donna che dice “mi sento bellissima”, seppure viva oggi in condizioni complesse. È stata una lezione non solo per il film, ma proprio una lezione di vita anche per me e per chi si lamenta sempre ad ogni minuzia. Raffaella dice anche che una porzione di colpa è dei lavoratori e della nostra cultura, va capito bene questo passaggio: qui l’accusa si raddoppia perché si estende a tutta una cultura basata sullo sfruttamento e sulla velocità del lavoro a tutti i costi. Diventa un’accusa di sistema. Siamo tutti responsabili.

Non sveliamo la terza storia, la lasciamo alla scoperta dello spettatore. Ti chiedo invece: quale sarà il percorso del film?
Dopo la presentazione alle Giornate degli Autori di Venezia, il primo passo sarà la messa in onda in Rai. Prossimamente arriverà anche al cinema.

In conclusione, visto che hai girato un film sulle morti sul lavoro, c’è una domanda che ti devo fare: tu cosa faresti per fermare la strage?
Faccio mia la risposta di Raffaella: bisogna cambiare cultura. Dobbiamo farci delle domande e interrogarci sul consumo, avere nuove accortezze perché tutto ciò che facciamo ricade sui lavoratori per primi. Lo dice anche Bruno Giordano: le norme ci sono, ma se non si applicano seriamente non cambierà mai nulla. Detto chiaramente, per me lo schiavismo non è mai finito: finché non cambiamo dal punto di vista culturale sarà difficile, perché oggi la società funziona male, se non accetti il ricatto sul lavoro ce ne sono altri che prendono il tuo posto. Allora, forse, è meglio se usciamo da casa e andiamo a prendere il sushi che mangiamo davanti alla serie Netflix, invece di farcelo portare da un rider sotto la pioggia. Così magari possiamo cambiare qualcosa.