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Il 14 maggio di un anno fa ci lasciava Ezio Bosso, direttore d’orchestra, compositore e pianista. Nato a Torino il 13 settembre del 1971, Ezio si avvicina alla musica all’età di quattro anni, grazie ad una prozia pianista e al fratello musicista. A 16 anni esordisce come solista in Francia e comincia a girare per le orchestre europee iniziando anche a studiare Composizione e Direzione d’Orchestra all’Accademia di Vienna.
Nel 2011 subisce un intervento per l’asportazione di una neoplasia cerebrale e nello stesso anno sarà colpito da una sindrome autoimmune neuropatica che lo costringerà nel settembre 2019 alla cessazione dell’attività di pianista avendo compromesso l’uso delle mani.
Diceva di sé in una intervista di qualche anno fa: “È stata una vita basata sul lottare, sul pregiudizio. Fin da bambino ho lottato col fatto che un povero non può fare il direttore d’orchestra, perché il figlio di un operaio deve fare l’operaio, così è stato detto a mio padre”. Per fortuna non è andata così. Perché non deve andare così. Perché così come ‘anche l’operaio può suonare il clavicembalo’, anche il figlio di un operaio può suonare il pianoforte e diventare direttore d’orchestra, un grandissimo direttore d’orchestra.
“La musica - era solito dire Ezio - ci cambia la vita e ci salva. Le persone che vengono ospiti da me, entrano da personaggi e escono da persone. La bacchetta mi aiuta a mascherare il dolore e non è una cosa da poco”. “L’arte e la bellezza sono contagiose - diceva - così cambieremo il mondo”. E tu, Ezio, un po’ il mondo lo hai cambiato davvero.
Dimostrandoci che il corpo è solo il contenitore della mente. Insegnandoci a superare i confini, i limiti. Facendoci capire che sono le nostre debolezze e le nostre imperfezioni a renderci speciali in un mondo che ci vorrebbe tutti uguali, tutti ricchi, bellissimi, perfetti, omologati.
“Io li conosco. I domani che non arrivano mai - scrivevi lo scorso anno su Facebook invitandoci a stare a casa durante l’emergenza - Conosco la stanza stretta. E la luce che manca da cercare dentro. Io li conosco i giorni che passano uguali. Fatti di sonno e dolore e sonno per dimenticare il dolore. Conosco la paura di quei domani lontani. Che sembra il binocolo non basti. Ma questi giorni sono quelli per ricordare. Le cose belle fatte. Le fortune vissute. I sorrisi scambiati che valgono baci e abbracci. Questi sono i giorni per ricordare. Per correggere e giocare. Si, giocare a immaginare domani. Perché il domani quello col sole vero arriva. E dovremo immaginarlo migliore. Per costruirlo. Perché domani non dovremo ricostruire. Ma costruire e costruendo sognare. Perché rinascere vuole dire costruire. Insieme uno per uno. Adesso però state a casa pensando a domani. E costruire è bellissimo. Il gioco più bello. Cominciamo…”.
Cominceremo Ezio, abbiamo già cominciato, ma la tua musica e la tua risata come compagne di questo lungo e difficile cammino già ci mancano.