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Ad A. è una dedica che contiene in sé un nome. Un nome da provare a non dimenticare, come tutte quelle piccole cose della vita quotidiana che Ada pian piano non ricorda più. Ha 40 anni e una vita davanti, una vita piena di cose da fare. Non potrebbe mai immaginare quello che di solito, a questa età, le persone non si aspettano di incontrare sul loro percorso: l’Alzheimer giovanile.
Compagnia Nous porta in scena a Roma, allo Spazio Diamante, uno spettacolo ispirato a una storia vera. Quella di una donna malata di alzheimer, una persona esistente, a cui lo spettacolo prova a regalare un finale diverso, almeno sul palcoscenico, da quello dell’abbandono.
“Questa è una storia quasi vera – spiega la compagnia – A. nella realtà, è una donna ormai anziana abbandonata dalla famiglia in una casa di cura. Abbiamo avuto modo di conoscerla attraverso colui che se ne prende cura e abbiamo scritto per lei un amore diverso”.
Seguendo la vita di Ada, i suoi gesti, i suoi percorsi mentali, non si può non sentire nella pancia il richiamo di un timore: quello di tutte le volte in cui abbiamo dimenticato un nome, un indirizzo, un appuntamento. Di tutte le volte in cui ne abbiamo dato la colpa ai troppi impegni, alla vita frenetica, all’incapacità di stare. Ma è proprio nello stop che la malattia impone a un personaggio così vitale ed energico che maturano le domande lasciate allo spettatore: “Ma se fosse il mondo, a non piacerti più? Tu non vorresti sparire piano, piano?
Lo spettacolo, testo e regia di Sara Esposito, anche interprete della protagonista, si muove tra pubblico e privato, aprendo a una riflessione su cosa sia la malattia. Ma soprattutto su come la nostra società si mostri sempre più incapace di accoglierla e di curarla. In un futuro non troppo distopico – siamo nel 2035 – la scalata al potere del partito ultraconservatore fa leva sull’ignoranza e la paura.
Il governo demagogico ha bloccato ogni evoluzione scientifica. La ricerca è ferma e i soggetti deboli sono emarginati in strutture apposite e fatti morire. In questo futuro più prossimo che lontano, l’alzheimer non è solo la malattia del secolo, ancora senza cura, che affligge sempre più persone al mondo.
La perdita di se stessi diventa anche la metafora di un abbandono collettivo, di un lasciare indietro, di un lasciare da soli. E soprattutto, di un paese in cui mancano i livelli essenziali di assistenza, in cui chi è malato conta meno, così come i suoi familiari. Nella metafora sociale sta la forza più grande dello spettacolo, anche se a tratti distrae l’attenzione da una dimensione più intima e profonda.
Mancano in alcuni momenti le assenze, i vuoti della malattia, quel mettersi da parte che è peculiare di chi perde se stesso. Al loro posto si percepisce un “eccesso di presenza” che, se levigato e ammansito, può rendere ancora più intensa la già profonda interpretazione della protagonista.
Lo spettacolo prova a offrire una via di fuga diversa rispetto alla realtà, quanto meno nelle intenzioni. E così accanto ad Ada ci sono Pietro, l’infermiere, e Max, il chimico farmaceutico. A interpretarli Sebastiano Gavasso e Valerio Lombardi, per dare corpo e voce alla cura, che si fa braccia, suoni, parole. Pietro è, infatti, il marito di Ada, pronto a costruirle intorno una rete di protezione che le impedisca di andarsene ancora più velocemente. Max è suo fratello, chimico farmaceutico con la passione per la musica,per droghe e per le storie che racconta Ada. Entrambi proveranno a salvarla. Ma per riuscirci, dovranno confrontarsi con i propri mostri.