Gandino ospita poco più di 5.000 anime, e dallo scampanare continuo che ti accompagna ovunque si direbbe anche parecchie vacche. È circondato dall’abbraccio stretto delle Prealpi, a una ventina di chilometri da Bergamo, in direzione Nord-Est. È in Val Seriana, e per arrivarci il fiume Serio lo costeggi per un bel po’. L’acqua è limpida e scorre veloce. Poi superi una decina di piccole industrie tessili, capannoni colorati con grandi insegne. Molti sono oramai cadenti, scheletri vuoti e intonaco a chiazze. Dopo ancora, colline morbide solcate da sentieri, e tornanti stretti per le auto e qualche camion. Nei weekend invernali migliaia di milanesi si riversano qui per sciare, in quelli estivi si fanno un’ora e mezza d’auto per cercare un po’ di refrigerio. In una giornata qualsiasi di novembre, invece, in giro non c’è quasi nessuno. Giusto una manciata di anziani che passeggiano lenti dopo pranzo, sotto un cielo basso e gonfio come un panno bagnato. Negli ultimi anni, il turismo mordi e fuggi è diventato un settore importante per l’economia locale. Ma campanili e ciminiere la fanno ancora da padrone. Ora et labora in salsa bergamasca. Come sempre. 

Scendendo dal borgo di Cirano, lungo la cresta della collina, a ogni curva la luce azzurrognola dei televisori accesi s’intravvede dietro le finestre. Facciate di pietra, muretti di recinzione e siepi ben curate scorrono lente oltre il finestrino dell’auto. Le scuole elementari stanno più giù, in un bell’edificio di mattoni rossi. È sera, solo qualche finestra è ancora illuminata. Al piano terra due aule sono state unite per creare una piccola palestra, con tanto di parquet a terra, specchi ai muri e passamano tutt’intorno. Il silenzio dei corridoi illuminati dal freddo del neon è rotto da una decina di bambine e ragazze in tutù nero o rosa. Sciamano ciarlando. Ridono e saltellano eccitate. Entrano tutte insieme. Le scarpette di raso passano una dopo l’altra nella cassetta grattando la pece greca. Un attimo di silenzio, poi parte una sonata per pianoforte di Chopin. Iniziano a danzare, tutte insieme. Passi leggeri, salti, piroette, allunghi. Qualche piccolo inciampo, recuperato subito con un colpo di reni sotto lo sguardo attento di Lidia Salvatoni. Tuta nera attillata, scaldamuscoli e capelli tirati sulla nuca: la maestra. Ha 51 anni e due figli grandi. Fa questo mestiere, in questa valle, da 33 inverni. E ormai è un’istituzione. Si vede anche da come richiama le sue allieve, con decisione ma anche con grande dolcezza, alternando con maestria sorrisi a sguardi più accigliati. D’altronde, molte di queste ragazze le ha viste crescere. Alcune sono già adulte e madri, e portano da lei le proprie figlie. La sua associazione «Fuorididanza» è nata nel 1989, va avanti quasi ininterrottamente da allora. 

Quasi. Perché da queste parti, a inizio marzo 2020, il Covid ha colpito molto duro. Da Alzano a Leffe, passando per Nembro, Albino e qui a Gandino. L’intera valle è diventata un enorme focolaio nella catastrofe bergamasca. Non un paese è stato risparmiato dall’epidemia. A un certo punto, le campane a morto non suonavano più. E anche le ambulanze entravano in paese senza sirena. In silenzio. Per qualche tempo questa è stata l’area più colpita d’Europa, e da cui verosimilmente la malattia s’è diffusa nel resto della regione. Si parlò subito di zona rossa, ma in questo fazzoletto di terra ci sono ancora quasi 400 aziende, per un totale di 3.700 dipendenti e 680 milioni di euro di fatturato annuo. Piccole fabbriche punteggiano queste valli con sbuffi bianchi sul fondo verde da cartolina. Una volta, prima della crisi, era il tessile a farla da padrone: il rosso fiammante delle camicie garibaldine venne fabbricato proprio qui. Ora invece c’è un po’ di tutto, con l’automotive in testa. Quindi all’inizio della pandemia, tra molte polemiche, la Regione Lombardia scelse di non chiudere. Poi i contagi esplosero quasi ovunque, e il governo decise di fare dell’Italia intera un’unica zona arancione. 

«La mia scuola nasce per portare qualcosa di diverso in questo paesino, per dargli vita in qualche modo. Per un periodo ho avuto addirittura 180 allieve». I suoi grandi occhi castani s’accendono d’orgoglio. «Da ragazza volevo danzare, e per farlo dopo la scuola dovevo andare ogni giorno a Bergamo. Ho fatto tanti sacrifici, questo è vero, ma di buon grado. Perché questa è la mia passione e ho avuto la fortuna di trasformarla in un lavoro». Sentire quel silenzio e vedere Gandino completamente vuoto, però, è stato terribile. Il suo sguardo adesso s’adombra: «La gente moriva ogni giorno, e poi il mio sogno s’era spento di colpo. Abbiamo dovuto chiudere, così come le altre attività e tutti i negozi della valle». «Pensavo sarebbe durato poco, magari fino a Pasqua. Invece il tempo passava, e io non riuscivo a vedere la luce in fondo al tunnel». La scuola di Lidia, tra l’altro, è un’associazione, lei non ha una partita Iva. Quindi durante quel periodo non ha avuto diritto a nessun indennizzo. Non entrava nemmeno un euro in casa, insomma. «Dovevo fare qualcosa per andare avanti, per pagare le bollette, per fare la spesa. E per non pensare a tutto quello che stava succedendo». 

Allora c’è stata una svolta, una prima piroetta. Una piccola azienda metalmeccanica aveva bisogno di personale. Dovevano produrre 50 mila perni per la nuova linea della metropolitana di Milano, e serviva qualcuno, non necessariamente esperto, per lavorarli al tornio. «È un lavoro in serie. Si prende il pezzo, lo si mette nel tornio. Poi lo si lavora e si controlla la misura. E così si fa per tutti gli altri pezzi». Lidia conosce il proprietario. Qui d’altronde si conoscono davvero tutti. Lui un giorno la chiama: perché non lo fai tu?. «All’inizio ho avuto una reazione strana. Ho pensato: e se poi non posso riaprire la scuola? E se questa diventa davvero la fine di tutto?». L’urgenza di portare a casa la pagnotta, però, ha avuto la meglio. 

Dal tutù alla tuta blu, direbbe qualcuno, come una favola al contrario. Ma tant’è. La fabbrica è più a valle, alle porte del paese. Dentro un grande capannone macchinari enormi levigano il metallo in un rumore assordante. Gli operai sono tutti uomini, perlopiù giovani. Alcuni giovanissimi. Si respira cameratismo e testosterone, come in uno spogliatoio di calcio. Alle pareti i poster dell’Atalanta e di qualche donnina seminuda. L’odore di grasso e ferro è intenso, brucia le narici. Riccioli di metallo riempiono i bidoni, e s’incollano alle suole delle scarpe. L’acciaio riflette la luce  obliqua che entra dai finestroni. Tutto si muove, tutto produce vibrazioni. «Ci ho lavorato per un anno su quel tornio. Ovviamente io non riesco ancora a programmarlo, e non ci provo neanche. Perché il mio lavoro è insegnare danza». E si mangia un sorriso, perché la sua storia negli ultimi tempi ha fatto il giro della stampa, locale e non. L’ha trasformata in una sorta di celebrità, e non le dispiace affatto. 

In ogni caso, Lidia per un anno ha preso quei pezzi di ferro e li ha messi nella macchina, come quegli altri ragazzotti. Li ha controllati e ripuliti. Ha riempito scatoloni e scatoloni di perni limati di giustezza. Fino all’ultimo, fino al 50millesimo. «È sicuramente un lavoro in cui ti sporchi le mani. Magari qualcuno può pensare che sia un lavoro da uomo, e magari lo è. Ma so che nella valle ci sono molte brave operaie donne e alla fine anch’io non ho avuto problemi. È vero quello che si dice: noi bergamaschi siamo operosi e ci rimbocchiamo le maniche. Però io mettevo su due paia di guanti per ogni mano, perché la polvere di ferro entra sempre e ti rovina le unghie. Ovviamente i ragazzi non ci fanno nemmeno caso». 

Il contratto a termine di Lidia è scaduto nell’agosto 2021, «ma ogni tanto mi chiamano ancora. Solo per fare i pezzi in serie, però». Nel frattempo, a fine settembre 2021, lei ha potuto riaprire la sua scuola, anche se a ranghi ridotti. Di nuovo «Fuorididanza», un’altra piroetta. «Rivedere le mie ragazze è stata un’emozione fortissima. Il primo giorno mi sono messa a piangere e non la smettevo più. Perché siamo un grande famiglia. E poi io sono finalmente riuscita a fare di nuovo quello che amo, a vivere grazie alla mia passione. L’esperienza da metalmeccanica me la porto comunque dentro. Ballare, creare coreografie e insegnare è il mio desiderio e il mio lavoro, la fabbrica m’ha insegnato cos’è la concretezza». 

Dalle sue parole, trasuda entusiasmo. E una consapevolezza: «Prima viene la dignità del lavoro, poi la necessità. A me interessa arrivare a fine giornata e sapere di aver fatto qualcosa di proficuo. Magari ho creato una bella coreografia con le mie bambine in palestra, oppure ho portato a casa lo stipendio grazie alle ore passate in una fabbrica metalmeccanica». Quello che a lei interessa, insomma, è andare avanti. Non importa come. «Ciò che conta è la dignità di quello che fai». Anche a costo di sporcarsi le mani con la polvere di metallo. Quella che poi finisce sotto le unghie, e le rovina. 

La rifondazione dello spettacolo

Avrebbe potuto limitarsi a spiegare le nuove misure – pure importanti – che il suo governo aveva appena messo in campo. Invece, con quelle parole all’apparenza benevole pronunciate durante una conferenza stampa («aiutiamo gli artisti che ci fanno tanto divertire»), il presidente del Consiglio Giuseppe Conte li fece arrabbiare tutti. In quella frase c’era la conferma involontaria dell’idea secondo cui il mondo della cultura e dell’arte, anziché faticare come gli altri, si diverte e fa divertire. Erano passati appena tre mesi dal 23 febbraio 2020, il lunedì nero per locali, teatri e cinema costretti ad abbassare la saracinesca da un giorno all’altro. Lo spettacolo dal vivo è stato il primo a fermarsi e l’ultimo a ripartire. Soltanto le grandi produzioni sono rimaste in piedi, sebbene zoppicando. Non ce l’hanno fatta tanti altri, i piccoli e medi, i circoli Arci, i cineclub, i teatri di quartiere, i locali in cui si fa la gavetta. Per fare quadrato sono nate associazioni come «La musica che gira», ci sono state proteste plateali e spettacolari come quelle dei bauli in piazza. Alla fine però le conseguenze sulla vita dei protagonisti sono sotto gli occhi di tutti: mai come in questo caso il virus si è abbattuto su un mondo che era già privo di tutele, dove non esistono coperture se uno si ammala (anche di Covid) e la precarietà regna indisturbata. 

Secondo l’Inps lo spettacolo impiega oltre 327 mila persone a livello nazionale. Il numero raddoppia se consideriamo l’intero settore culturale coperto da un minimo di sistema previdenziale. Ma in realtà la platea è ben più ampia e con l’indotto si arriva al 6,1% degli occupati, cioè a un milione e mezzo di persone secondo un’indagine presentata da Unioncamere nel 2018. Seguirà un 2019 ancor più positivo e incoraggiante, come mostrano i dati dell’Annuario dello spettacolo raccolti dal centro studi Siae. Poi nel 2020 piomba l’emergenza coronavirus e salta il banco: arte, cultura, cinema e sport perdono introiti per almeno 8 miliardi di euro e lasciano per strada un quinto delle maestranze. Nel post-pandemia il 22% dei tecnici – dice una ricerca della Fondazione Centro Studi Doc – non lavora più e oltre un decimo ha deciso di abbandonare definitivamente il settore. Tra di loro tantissimi rigger, quelli che montano i palchi. Se poi guardiamo la situazione dal lato del botteghino, uno studio condotto dal gruppo Ask dell’Università Bocconi di Milano ha quantificato per il 2020 una contrazione di circa il 70% del numero di spettacoli, degli ingressi, dei ricavi e della spesa del pubblico. Un segno positivo almeno c’è e riguarda il digitale: durante il confinamento, infatti, abbiamo osservato una crescita esponenziale (anche lì si crea lavoro) e oggi cifre alla mano – affermano i ricercatori del gruppo Ask – è arrivato a coprire fino all’80% della remunerazione di artisti e editori. 

Su questo abbiamo intervistato Ernesto Assante, giornalista e critico musicale de la Repubblica. 

Qual è stato l ’effetto del Covid sui lavoratori dello spettacolo? 

Una mazzata incredibile, di proporzioni mastodontiche. Nel mondo dei live sono andati tutti per stracci. Però io ho un altro punto di vista, cioè secondo me il virus ha fatto anche un favore al nostro mondo musicale, finalmente l ’ha reso visibile. In qualche modo ha illuminato una scena che nessuno conosceva. Vi ricordate la battuta di Conte sugli artisti che ci fanno divertire? Ecco, speriamo di avere fatto un passo in avanti rispetto a quell’idea, al solito ritornello del «sì ok, ma che lavoro fai?». La nuova crisi pandemica, con famiglie intere rimaste per strada, ha fatto rendere conto a tanti che stiamo parlando di un lavoro vero che coinvolge un sacco di gente e che dà da mangiare a tantissime persone. Sì, certo, loro «fanno spettacolo», quindi apparentemente si divertono. Ma non è detto. Se faccio il facchino, per dire, faccio il facchino sempre. Poco cambia se sposto travi per costruire i palchi o per costruire i palazzi. Non tutti lo hanno ancora capito, almeno non tanti quanti vorremmo che fossero, compreso forse il lato istituzionale. Ma qualcosa si è mosso. Ecco, adesso è importante che questa «illuminazione» sui lavoratori dello spettacolo non si spenga. Dobbiamo ricordarci che la maggior parte di loro fa i lavori normali, i contabili, gli amministrativi e via dicendo. Poi ci sono pure gli attori e i musicisti. Ma ripeto, quelli che tengono in piedi la baracca dietro le quinte sono molti di più. 

È vero, come dice qualcuno, che il colpo inferto dal virus è stato letale? 

No, io sono ottimista. Se parliamo della musica registrata in particolare, cioè di Spotify e simili, stiamo vivendo nell’epoca più florida degli ultimi due decenni. Il mercato non era mai stato così ricco dal 1999… 

Bene, questo sorprende non poco. Spiegaci meglio… 

Lo so che sembra strano ma è così. Nel 2021 l’industria della musica registrata ha fatto segnare le stesse quantità di ricavi che c ’erano prima del digitale. Praticamente è tornata ai livelli massimi. È chiaro che questo non si riflette immediatamente sui concerti perché il lockdown è stato lungo. Ma se tanto mi dà tanto, per come è vivace il mercato della musica registrata, sarà abbastanza ricco anche quello dei live. Certamente diverso da quello di prima, ma io penso che i lavori persi torneranno. La gente ha voglia di vedere i concerti, ce n’è un gran bisogno, nessuno si accontenta di sentire la musica solo sullo smartphone; alla fine i tuoi artisti li vuoi incontrare, li vuoi vedere. Il vero problema perciò non è la mancanza di interesse, quella c’è, nelle giovani generazioni è addirittura in crescita. Molto dipende da quando finiranno definitivamente le limitazioni del Covid, ma ripeto, la musica non è stata mai così bene. Erano anni che non faceva così tanti soldi. Ora che si può suonare tranquillamente dal vivo, gli effetti si vedono anche là. 

È un percorso di rinascita condizionato dalla pandemia oppure il virus non c’entra nulla? 

L’accelerazione già covava prima del Covid. È l’effetto delle piattaforme di streaming, del nuovo modo che abbiamo di fruire, ascoltare, distribuire e vendere la musica. È un mercato che non ha paragoni con quello di prima ed è una partita che sta funzionando bene, con forti ritmi di crescita e con ulteriori spazi all’orizzonte, perché non tutti ancora ascoltano la musica su Spotify, ci sono margini. Dal punto di vista economico questo significa che oggi, dopo la pirateria, gli introiti del digitale rientrano di nuovo nelle tasche dell’industria musicale, l’unica industria planetaria che è stata prima rasa al suolo dal web e poi è resuscitata in un’altra forma, ed è per questo che fa soldi adesso. È vero che ormai i cd non li compra più nessuno, ma quelle perdite sono abbondantemente ripianate dal digitale che costa di meno perché non ha bisogno di un supporto fisico. 

Dopodiché ci sono gli spettacoli dal vivo. Quelli non si possono scaricare da internet… 

Esatto. E lì si fanno altri soldi. Anni fa gli spettacoli live avevano meno rilevanza perché contava Mtv. Adesso Mtv non conta più e i video su YouTube certamente non bastano a soddisfare la voglia che uno ha di vedere un concerto, anche dell’artista giovane sconosciuto. Tananai, per esempio, arrivato ultimo a Sanremo, ha fatto due sold out: stiamo parlando di un ragazzino ignoto apparso una volta in tv. Se non è un buon segnale questo…

Le maestranze, i tecnici, gli amministrativi troveranno quindi nuovi spazi? 

Spero che la rifondazione dell’industria musicale passi in parte da chi organizza i concerti, c’è tanto da cambiare. Ma è un tema molto legato anche a cosa fanno le istituzioni. Io vorrei avere 20 club aperti in città, è pieno di ragazzi che vorrebbero aprirli, però spesso non si può fare e anche in questo caso il Covid non c’entra. Vedo limiti, difficoltà, burocrazia, mancanza di fiducia delle banche che non prestano i soldi ai giovani. Perché a Londra sì e qui no? Noi non abbiamo meno musica o meno bella. Ecco, io credo che le istituzioni debbano facilitare l’imprenditoria musicale perché è un bene nazionale, e l’illuminazione che ha dato il virus, quella di cui parlavo all’inizio, potrebbe dire ai nostri governanti che c’è un settore sul quale puntare. I Måneskin spiegano al pianeta che possiamo esportare musica, è un successo incredibile che non si era mai visto prima per un artista di casa nostra. Allora perché non approfittarne, perché non dare la possibilità ai ragazzi di avere dei locali in cui si può suonare tutte le sere? Che male farebbero?

Un discorso che si potrebbe applicare anche al teatro o al cinema? 

Certo. Ma qui non è questione di sovvenzioni. Quelle riguardano solo le grandi compagnie. Tu fammi aprire un teatrino nel mio quartiere e io ci lavoro con i miei amici. E non m’imporre centomila limitazioni per cui non posso farlo. È chiaro che ci sarebbe più lavoro per tutti, i tecnici, gli amministrativi, oltre che per attori e registi. È un mercato vero, sono lavori veri che producono cultura, due beni in uno: meglio di così… Però in Italia viviamo una situazione incomprensibile, mi accaloro ogni volta a parlarne. Le facilitazioni che si hanno in altri ambiti industriali non esistono per sostenere la cultura, per aprire cinema, teatri, locali, club. Dieci ragazzini vogliono proiettare film che non si vedono sulle piattaforme: fanno anche l’associazione, ma non hanno un posto per aprire una sede perché poi passano i vigili e gliela chiudono cinque minuti dopo. Come fanno? Non è solo arte, è intrattenimento. C’è chi vuole ascoltare le cover band di Pupo? Evviva le cover band di Pupo, l’intrattenimento è sano qualsiasi cosa si suoni, l’importante è che ci siano luoghi dove si possa fare. I cinema per esempio chiudono perché la gente non vuole andarci come prima. Non c’è dubbio. È una crisi ineluttabile, come le macchine elettriche sostituiranno le macchine a benzina: non c’è niente da fare, è così. Però uno spazio piccolo per fare una cosa alternativa c ’era negli anni Settanta, ci può essere anche adesso. Il cineclub sotto casa mia ospitava venti persone, non di più, io ho visto là il miglior cinema del mondo. Vorrei che oggi fosse ancora così. Pensate di moltiplicare tanti piccoli numeri per tutto il Paese, pensate a quanti benefici ci sarebbero per il lavoro, per la cultura, per l’arte. 

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