Nata a Torino il 29 luglio del 1900 da una famiglia poverissima, Teresa Noce comincia a lavorare a sei anni consegnando il pane, poi come stiratrice, sarta, tornitrice alla Fiat. 

Nel suo romanzo autobiografico, Gioventù senza sole, racconta la sua giovinezza torinese e la perdita del fratello maggiore: “Fu terribile - scriverà -. Non mi rassegnai alla morte di mio fratello. Non potevo e non era giusto. Non avevo che lui. Il dolore, fin da allora, mi si trasformò in furore e in desiderio di lotta”.

Costretta dalle circostanze a lasciare prestissimo la scuola svolgerà, piccolissima, vari mestieri, tra cui quello di sartina, di operaia in un biscottificio e, durante la Grande guerra, di tornitrice alla Fiat Brevetti. 

Nel Pci dalla sua nascita nel 1921, espatria nel 1926 con il marito Luigi Longo prima a Mosca, poi in Francia.

Nel 1936, dopo aver fondato a Parigi con Xenia Sereni il mensile Noi Donne è con Longo in Spagna, dove cura la pubblicazione de Il volontario della libertà, giornale degli italiani nelle Brigate internazionali. 

Rientrata in Francia allo scoppio della Seconda guerra mondiale, è internata nello stesso campo che ospita Lina Fibbi, Anita Contini, Anna Maria Montagnana, Elettra Pollastrini, Baldina Di Vittorio che ricorderà: “Fu per me un’esperienza importante perché lì conobbi decine di militanti di varie nazionalità. In particolare ricordo Teresa Noce (Estella), Giulietta (Lina) Fibbi, Elettra Pollastrini (Miriam), Anna Maria Montagnana (moglie di Mario), le sorelle Pauline e Mathilde (…) Per alcuni mesi fu internata con noi anche Anita Contini, la compagna di mio padre. Sulla mia sorte papà si rasserenò soltanto quando seppe che vicino a me c’era Estella, una compagna che avevo sempre conosciuto e che voleva bene a tutta la nostra famiglia. In effetti, Estella che pure era nota - oltre che per le sue qualità di combattente e di dirigente del movimento operaio - per il suo carattere difficile, fu molto buona e affettuosa soprattutto con le più giovani, e con me fu particolarmente materna”.

Quando, per intervento dei sovietici, è liberata e dovrebbe ricongiungersi ai figli a Mosca, per il cambiamento delle alleanze militari non può farlo. Resta così a Marsiglia, dove, per conto del Partito comunista francese, dirige il Moi - l’organizzazione degli operai immigrati - e si impegna nella lotta armata condotta contro i tedeschi e i collaborazionisti.

A Marsiglia Teresa viene ospitata e nascosta presso la famiglia immigrata Livi, nella camera lasciata vuota da un giovanotto di nome Ivo che di lì a poco diventerà noto con il nome di Yves Montand. 

Durante una missione a Parigi all’inizio del 1943, è nuovamente arrestata: viene deportata, prima nel lager di Ravensbrück, poi in Cecoslovacchia, dove a Holleischen le toccano i lavori forzati in una fabbrica di munizioni.

“Voi non rivedrete più i vostri cari - dirà delle compagne di avventura non sopravvissute alle violenze, alla fame, alle privazioni, al carcere - le vostre famiglie, il vostro paese. Voi non godrete più della libertà conquistata anche con il vostro sacrificio. Voi non toccherete più il suolo liberato dalla vostra Patria. Voi siete morte in piena notte, malgrado la vostra certezza nell’alba immancabile. Voi rimanete nel buio. Ma grazie anche a voi, domani farà giorno ancora, nel mondo”.

Tornata in Italia Estella è nominata alla Consulta e nel 1946 è la prima degli eletti alla Costituente della sua circoscrizione, una delle più votate del Pci a livello nazionale.

“Teresa - scrive Graziella Flaconi -  diventa capolista in due circoscrizioni Modena-Reggio e Parma-Piacenza, venendo eletta in entrambe. Campagna elettorale faticosa, sempre in macchina, sempre a parlare. Ma la votano persino le suore. Infatti in una sezione, dove queste avevano votato, il numero delle preferenze per lei avevano superato quelli degli iscritti 'civili' nelle liste elettorali”.

Eletta in Parlamento, vi rimane per due legislature durante le quali presenta la proposta di legge per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri ed un’altra, insieme a Maria Federici, che prevedeva eguale salario per eguale lavoro per donne e uomini. 

Di fronte all’appello di Togliatti che invita i compagni di partito a votare a favore dell’art. 7 per non compromettere la pace religiosa, lei palesa la propria contrarietà e si astiene in Aula disobbedendo alla disciplina di partito.

“Mi ricorderò sempre - dirà - quelle facce voltatesi a guardarmi come un sol uomo. Ero la prima. Poi, Marchesi, che era giunto in ritardo, votò no, tranquillo, senza aver chiesto il parere a nessuno. Di Vittorio che era venuto da me, preso alla sprovvista, essendo quasi in testa all’elenco disse sì e dopo gli dispiacque. Se ne era discusso, s’era deciso di prendere una posizione ufficiale, ma nessuno mi ha impedito di dissentire”.

Intanto lascia la casa romana e si trasferisce a Milano, dove può occuparsi più da vicino della Fiot, sindacato dei tessili, di cui è segretaria.

“Avevo accettato con riserva di lavorare per i tessili - racconterà - la riserva era che, anche se per la corrente sindacale comunista ero la segretaria designata, di fatto lo sarei diventata solo dopo che un congresso nazionale mi avesse democraticamente eletta. Quei primi mesi di lavoro furono sfibranti e amari. (…) Nessuno (…) voleva aiutarmi e ognuno di loro si sentiva sicuro di essere più adatto di me a quella carica di segretario generale, per varie ragioni: io non conoscevo il lavoro sindacale attuale, ma solo quello di prima del fascismo o quello illegale; non conoscevo i problemi tecnici, settoriali; ero troppo «politica»; infine, ed era l’ostacolo principale, ero una donna”.

Una donna che pagherà un prezzo altissimo per il proprio coraggio, la propria determinazione, la propria dignità. 

Nel 1953 scopre da un trafiletto comparso sul Corriere della Sera che il suo matrimonio è stato annullato. Dopo aver chiesto inutilmente che fosse il Partito a farlo invia al giornale una smentita, salvo poi scoprire che era tutto vero e che addirittura il marito aveva falsificato la sua firma.

Inizia così, tristemente, la sua parabola discendente: i compagni con cui aveva condiviso anni di lotte avalleranno il comportamento di Longo e sarà lei, alla fine, ad essere messa sotto accusa e ad essere espulsa dal Partito. 

Teresa vive “il più grave trauma, politico e personale” della sua vita. “Grave e doloroso più del carcere, più della deportazione”.

«Imparare a dire di no al padrone, al capo-ufficio, al direttore, all’agrario». È il 1955 quando affida alle colonne de l’Unità il suo manifesto di disobbedienza.

Un manifesto al quale rimarrà sempre, nonostante tutto e tutti, fedele.

Sì, Cenerentola ha messo veramente il fazzoletto rosso, perché le Cenerentole non vogliono più restare passive, perché Cenerentola non vuole rimanere più rinchiusa nel buio ad aspettare la guerra. Cenerentola vuole uscire all’aria aperta, alla vita, alla lotta per la pace.