Stai tranquillo, non uscire da casa: tanto ti portiamo tutto noi. Questo il messaggio ricorrente, da molte aziende e diverse fonti, che ha accompagnato tanti di noi negli scorsi mesi. Più o meno lo stesso ci veniva detto da Poste, dal Consorzio del Parmigiano reggiano, e dai tanti produttori impegnati nella consegna a domicilio (a partire dal più tentacolare: Amazon). Senza contare che anche Netflix, per chi ce l’ha, ci invia quotidianamente informazioni, altrettanto tranquillizzanti, sull’abbondanza di programmi che ci mette a disposizione pur di non uscire.

Un insieme di messaggi rassicuranti, ma nello stesso tempo inquietanti. Come in un film di fantascienza del secolo scorso siamo stati in balia di un nemico esterno, che è invisibile, eppur ci imprigiona. Ma, invece di soffrire, a quanto pare eravamo condannati a consumare come prima, in mancanza di meglio, grazie ad una massa – anch’essa vaga e sommersa – di persone, di lavoratori, impegnati a garantire la fornitura dei beni essenziali. Tutto questo ha contribuito ad accentuare l’irrealtà – che nessuno avrebbe immaginato anche nei classici di fantascienza – nella quale ci siamo trovati immersi.

Da un lato, accanto alle restrizioni nei movimenti, l’incubo di un terremoto nell’economia e nell’occupazione. L’Organizzazione internazionale del lavoro che stima i possibili disoccupati arrivare fino a 195 milioni (o secondo altre fonti 25 milioni, ma le stime sono oscillanti, mentre non sempre risultano chiari i criteri di calcolo). Da un altro lato, i messaggi che abbiamo ricordato, dalle banche a “la spesa da noi ti arriva a casa”, vorrebbero restituirci un’apparenza di normalità.

La convivenza di queste due dimensioni è stata possibile grazie al lavoro di tanti e all’emersione di nuove contraddizioni e nuove disuguaglianze, che si aggiungono alle precedenti e non le sostituiscono. Forse – questo potrebbe essere il lato positivo – con una maggiore consapevolezza diffusa che proprio grazie ad esse si è trovato un qualche equilibrio e collante dentro un mondo altrimenti annichilito.

Con lo stato di guerra, che è stato spesso evocato, questo strano tempo ha condiviso il fenomeno delle code. Ma quelle che scorriamo nei filmati d’epoca in bianco e nero erano code legate alla scarsità. Il paradosso vuole che quelle attuali, prodotte dall’emergenza sanitaria e dal distanziamento, implicano l’abbondanza delle merci: dalle quali però tanti, che non riescono a lavorare e ad avere reddito, corrono il rischio di essere esclusi.

Come sempre accade in fasi di grande sommovimento si manifesta una lettura ottimistica – alla pari dei messaggi di quanti consegnano prodotti – che vede emergere potenzialmente benefici per tutti da questa drammatica esperienza collettiva: finalmente tutti lavoreranno da remoto, tutti avranno la formazione per poter contare e contrattare in base alle loro competenze, le tecnologie ci avvicinano e ci salveranno ecc. È vero, anche qui come sempre, che tende a circolare anche un altro punto di vista, naturalmente più proiettato in una direzione apocalittica o catastrofica.

La vulgata più pericolosa appare la prima. Non perché abbia torto sul fatto che il mondo lavorativo post coronavirus sarà sconvolto e modificato. Ma perché affida ad una sorta di evoluzione naturale un esito felice, che per essere tale, richiede al contrario una grande progettazione collettiva e la capacità di indirizzare i cambiamenti in una direzione più vantaggiosa per tutti.

Tutti siamo stati spinti a fare esperienze lavorative (e non solo) che non avremmo immaginato prima: dall’istituzionalizzazione del lavoro da remoto, alle lezioni a distanza, alle riunioni ed incontri di vario tipo, anch’esse in rete, al potenziamento della socialità a distanza, fino alla condivisione di occasioni famigliari che in altri momenti sarebbero state vissute di persona ecc. Le tecnologie ci hanno aiutato e la loro presenza costituisce la principale differenza rispetto agli sconvolgimenti passati. Ma esse non produrranno in automatico tutte le soluzioni sociali e i posti di lavoro necessari a rilanciare (e ripensare) l’economia.

È questa fiducia evoluzionista ed un po’ acritica verso lo spontaneismo del mercato che lascia perplessi. Anche perché essa sembra non accorgersi che le opportunità di innovazione (che vanno colte) trascinano con sé nuovi dualismi e differenze non accettabili, i quali vanno affrontati. Tanto le opportunità che i rischi richiedono una progettazione collettiva: la capacità di uscire da una crisi drammatica, come è successo appunto cento anni fa, attraverso il ricorso a politiche radicalmente critiche verso gli assetti precedenti.

Ricordiamo, in modo breve, alcune delle disuguaglianze e distorsioni emerse negli scorsi mesi, che hanno portato alla luce fragilità sociali ed economiche che già preesistevano. La prima, e più vistosa, appare la linea di divisione tra quanti, anche dentro questo frangente, hanno mantenuto un’occupazione (e un reddito) e quanti invece non sono stati in grado di lavorare, e hanno dovuto fare ricorso a qualche ammortizzatore per disporre di un reddito. Una divisione che può corrispondere, in mancanza di interventi correttivi, a quella tra un mercato del lavoro relativamente protetto da un lato, e dall’altro il resto della mela – del mercato del lavoro – che corre il rischio di non avere più un’occupazione.

La seconda barriera divisoria consiste nel fatto che quello strano equilibrio – stare a casa avendo a disposizione tanti beni materiali – è stato possibile grazie alla ragione che i tanti restati a casa hanno potuto contare su un esercito di lavoratori manuali che ha garantito la possibilità di accedere ai prodotti necessari. Insomma, è diventato più chiaro di prima quanto tutti noi dipendessimo da tanti lavoratori, un vero e proprio esercito di invisibili, che non si limitavano a stare davanti ad un computer: da tutti quelli che garantivano l’attività delle filiere alimentari (dalla produzione alla distribuzione, alla vendita), a quanti lavorano in una delle giunture della catena delle vendite online e della consegna a domicilio.

Senza arrivare ai rider – che un po’ sono presentati come l’idealtipo delle patologie – pure essi tra i pochi a potersi muovere pur di consegnare i prodotti alle nostre case. Appare evidente che per questi lavoratori, spesso non considerati o ai margini del discorso pubblico, si ponga con forza l’esigenza che l’importanza delle loro prestazioni sia valorizzata.

E poi un’altra asimmetria, spesso occultata. Molti lavori sono stati “remotizzati”, uscendo fuori dall’episodicità dello smart working: e si tratta di un aspetto importante da consolidare, oltre che segno di reattività delle organizzazioni. Ma una parte dei lavori necessari alla riproduzione delle nostre società, come quelli sopra ricordati, non possono essere svolti a distanza, richiedono piuttosto (e probabilmente continueranno a richiedere) una massa di lavoratori impegnati in operazioni materiali – come quelle legate ai servizi alla persona – difficilmente surrogabili.

Anche la caduta delle economie sembra mostrare velocità differenziate, che mettono in luce differenziali di partenza di carattere strutturale, e ci ricordano quantomeno come l’Europa continui a presentare un divario significativo tra Paesi forti e Paesi deboli. A giudicare dai primi dati sono Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Italia quelli che sembrano pagare i prezzi maggiori, oltre ad essere quelli maggiormente investiti dal Coronavirus. E non solo in termini di caduta delle economie, ma soprattutto di caduta drammatica dell’occupazione.

È diventato più evidente quello che già sapevamo, almeno per quanto ci riguardava: che il nostro mondo è popolato da attività produttive estremamente gracili, che crollano con un colpo di vento. Ed in questo modo trascinano con sé un pullulare di lavorini (usiamo il diminutivo del concetto di Accornero di lavori, perché ci troviamo di fronte ad una patologia di quella categoria interpretativa) di poca qualità, di durata e orari limitati, e di salari al livello di sussistenza. Questo scenario deve portare ad interrogarci se la ripartenza di queste economie dovrà/dovrebbe consistere semplicemente nel ritorno allo statu quo.

Bene hanno fatto le tre confederazioni sindacali a chiedere a chiare lettere che si vada oltre il meccanico ritorno al passato, che molti sembrano auspicare, in direzione invece della costruzione di un nuovo modello di sviluppo. E questo ci aiuta a capire quale possa essere, in termini pratici, la differenza sostanziale tra una massa di denaro erogata ad occhi chiusi a tutte le imprese e gli operatori, o invece uno sforzo condiviso per riposizionare il nostro apparato produttivo assicurando una prospettiva migliore ai lavoratori italiani.

Intendiamoci. Non è in questione, ovviamente, la necessità di assicurare ampie dosi di liquidità alle imprese per metterle in condizione di fronteggiare la fase emergenziale. E di conseguenza anche interventi a sostegno dei redditi dei lavoratori colpiti dalla crisi e a rischio di una disoccupazione non solo congiunturale.

Quello che si vuole piuttosto sottolineare è che questo deve avvenire con un più generale processo di ricostruzione e di rinnovamento, che possa essere gestito solo all’insegna di una grande progettualità e di un patto sociale, che dia la possibilità alle organizzazioni davvero radicate nella materialità del lavoro e dell’economia di fornire un contributo attivo, tale da non limitarsi alla mera elargizione di risorse.

Sarebbe opportuno già nella prima fase degli interventi – quelli destinati a colmare i buchi dell’emergenza – dotarsi di una barra precisa in direzione del rafforzamento della qualità delle imprese e dell’occupazione. Senza affidare alla fase ulteriore, quella della ricostruzione e del rilancio, questo compito. Facciamo un esempio. Molte delle aziende soffocate dalla crisi (trascinando con sé la caduta del lavoro) appartengono all’economia sommersa e in nero, che si stima contribuisca ad un’evasione fiscale superiore ai cento miliardi annui.

Cosa significa sostenere questo segmento per evitare che gli imprenditori e i lavoratori che operano al suo interno si inabissino del tutto? Appare chiaro che questa è una opportunità non solo per farle emergere fiscalmente, ma anche per aiutarle a riorganizzarsi e a diventare più competitive, per non rientrare semplicemente nelle caselle e nei vizi del passato. E per fare questo ci vuole però uno Stato in grado di intervenire attivamente e con l’autorevolezza dei suoi indirizzi e dei suoi uomini, non limitandosi a fare la sola cosa che sa fare al momento bene, che consiste poi nel produrre una abbondanza alluvionale e spesso disordinata di disposizioni e di norme.

Quindi, se immaginiamo interventi di portata straordinaria, il ruolo dei sindacati in particolare, e delle parti sociali nel loro insieme, potrà essere decisivo: non solo per favorire soluzioni socialmente più giuste, ma anche per aiutare la crescita complessiva di produttività e di sostenibilità del nostro apparato produttivo. Ci vorrebbe un new deal, come negli Stati Uniti degli anni trenta, ma di portata globale. E la cui agenda preliminare e minima si compone già di diversi pezzi: sicuramente una concatenazione più complessa rispetto al passato.

Un primo nodo riguarda l’ampiezza degli investimenti europei. Ma questo aspetto si presenta come il più noto e controverso; per cui rinvio solo all’esigenza di un compromesso intelligente che consenta di avere abbondanza di mezzi finanziari. Ma senza mettere tra parentesi la questione italiana centrale: come passare da politiche prevalentemente procedurali e statiche a politiche di “efficienza dinamica”, tali da rendere gli interventi economici selettivi e davvero innovativi.

Un problema correlato, anch’esso di grandi proporzioni, si riferisce alla capacità di cogliere questa opportunità drammatica per impostare politiche diverse dall’austerità depressiva finora dominante. Data l’interdipendenza tra i Paesi questo rovesciamento richiederebbe “quattro elementi cruciali: espansione del mercato interno tedesco ed europeo, bilanciamento della capacità produttiva all’interno dell’Unione, parziale riconversione industriale verso settori finalizzati al soddisfacimento di bisogni sociali (quali istruzione, sanità e cura), accorciamento delle catene del valore” (Simonazzi, Guarascio, Celi, 2020).

Di qui l’istanza di un ripensamento profondo dell’impostazione di politica economica tedesca orientata verso l’esportazione, almeno verso un mix più attento alla domanda interna. Una operazione di grande complessità, ma probabilmente conveniente per la stessa Germania: non dimentichiamo che tale approccio ha prodotto effetti divisivi sul mercato del lavoro e sulle relazioni industriali di quel Paese, e di conseguenza non appare infinitamente sostenibile sul piano sociale.

In ogni modo dovremo fare i conti con la necessità e la presenza pratica dello Stato. Un Big State era già ritenuto indispensabile prima dell’emergenza. Soprattutto nell’intento di contrastare l’erosione del mercato del lavoro, indotta dalle nuove tecnologie digitali attraverso politiche sia protettive che mirate ad espandere nuove occasioni occupazionali. In questo senso, proprio per evitare un “mondo senza lavoro”, venivano proposte diverse misure, tra le quali vanno annoverati gli interventi dello Stato a sostegno del lavoro.

A questo punto il ricorso ad un Big State diventerà obbligato. Ma come avverrà? Sarà necessario che esso riacquisti quantomeno una capacità di “regia” (come ha sostenuto Rampini su Repubblica) complessiva, per evitare che si riduca ad operare solo nella funzione di tampone dei fallimenti del mercato. Insomma, servirebbe un vero e proprio “Stato strategico” (per usare la bella formula suggerita da Laura Pennacchi).

Ma qui veniamo all’ultimo tassello. Cosa significa esattamente lo Stato (che intanto nel caso italiano dovrebbe consistere in una sorta di profonda riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni)? Sarebbe certo importante affidarsi ad agenzie pubbliche specializzate create o ripensate ad hoc (pensiamo alla Cassa depositi e prestiti). Ma sarebbe anche importante evitare impostazioni tecnocratiche e dirigiste.

Qui risiede il rilevante spazio potenziale a disposizione dei grandi attori collettivi, ed in primo luogo dei sindacati: attori che hanno interesse non solo a creare le occasioni per il rilancio dello sviluppo, ma anche a renderlo socialmente più ricco e sostenibile, attraverso la ridefinizione delle sue priorità, a partire dall’apertura di un nuovo ciclo di stabilità degli impieghi. In effetti, una nuova stagione di accordi sta accompagnando la riapertura del nostro sistema produttivo. Accordi inediti per i contenuti, ma anche per le modalità della sottoscrizione, spesso a distanza: dunque attivando relazioni industriali “virtuali”.

Quasi cent’anni fa attraverso la grande riforma keynesiana il “capitalismo salvò se stesso” (per parafrasare Colin Crouch). Ma lo fece grazie all’introduzione di politiche riformatrici promosse largamente dal mondo del lavoro organizzato. Questo salto divenne possibile grazie ad un grande fermento intellettuale e progettuale e ad elaborazioni di grande spessore, oltre che a realizzazioni felici, che resero quel passaggio drammatico una distruzione creatrice.

Anche oggi sarebbe utile immaginare un nuovo avvio e un ridisegno altrettanto profondi. Ma attualmente alcuni di quei presupposti positivi mancano (pensiamo al ruolo sbiadito dei partiti di sinistra o al deficit di paradigmi forti nella progettazione del futuro). Tuttavia possiamo almeno puntare a valorizzare alcune delle leve che sussistono. E non dimentichiamolo: nel nostro Paese in questa chiave una grande risorsa resta quella del radicamento sociale e territoriale diffuso dei sindacati e dell’insieme delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi.

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