Un anno con tredici lune può essere, molto semplicemente, un anno storto. Il 2020 è stato un anno pestilenziale. Ma, come dimostra Alessandro Gazoia col suo romanzo dal titolo d’ispirazione fassbinderiana (appunto: Tredici lune, Nottetempo), è stato anche un anno durante il quale si è potuto e dovuto non-rinunciare alle parole. Gazoia, già notevole saggista e editor, è qui alla sua seconda prova da narratore dopo Giusto terrore (il Saggiatore, 2018). E ha scritto, con coraggio e ammirevole maturità, un libro che non scappa dal presente. Se il presente è la pandemia, il virus, il confinamento, la solitudine, Tredici lune è il libro che prova a raccontarlo.

Il lettore che cerca un protagonista troverà qui un uomo (Ale), editor di professione, una vita colma di libri, manoscritti da correggere, autori da seguire, che si ritrova all’improvviso prigioniero nel suo appartamento, in una nuova vita amputata di contatti sociali, come tutti noi ci siamo ritrovati nel corso dell’epidemia. Voce e anche storyteller, il protagonista di Tredici lune racconta i propri giorni, all’incrocio con la cronaca che poi diventerà storia del nostro Paese al tempo del Covid, e intanto immagina altre storie, le enuncia, articolando un alveare di personaggi, episodi, esperienze che formano un romanzo nel romanzo, controcanto cadenzato nelle sezioni Microdemie del volume.

È, forse, la più antica lezione: proliferare storie per sopravvivere. Alla domanda: “È un romanzo sulla pandemia?”, si potrebbe rispondere sì, ma anche no. Diciamo che il libro di Gazoia guarda il Covid un po’ come fa Topolino quando deve nascondersi da Gambadilegno: striscia con le spalle al muro e fissa il cattivo, e incredibilmente il cattivo non si accorge della sua presenza, eppure Topolino è in piena luce e noi lo vediamo benissimo. Miracoli della fiction. Abbiamo raggiunto l’autore per porgli qualche domanda.   

Com’è nato Tredici lune? Si ha l’impressione, leggendo, che sia cresciuto col tempo, nel corso dei mesi del confinamento. Che le parole e le storie siano servite a lenire quel tempo e a riempirlo. Quindi non un romanzo-progetto, ma un romanzo-risultato

Tredici lune è un romanzo-risultato, hai ragione, ed è un romanzo-nonostante. Nonostante tutti i rischi e le trappole di cui, credo, ero ben conscio, ho deciso di raccontare proprio questa storia, o meglio ho riconosciuto che questa storia era l’unica che per me aveva senso raccontare. Non so se il romanzo è servito a lenire quel tempo, perché quando scrivo non sono mai sereno (intendo dire, molto pianamente, che scrivere non mi rilassa, non mi distende i nervi), però sentivo che non potevo scrivere altro. E a un certo punto – quando ho trovato una voce narrante che mi pareva efficace – ho capito che potevo scriverlo, ero in grado di scriverlo in un modo che non mi sarebbe sembrato falso e ridicolo.

Nel libro prevale una forma che sembra diaristica. Il protagonista pare raccontarsi in un journal intime. Poi l’architettura si fa più complessa, entrano le storie di altri, come se diventasse diario plurimo. O un diario – quello scritto da un uomo isolato – che accoglie altre vite dentro di sé e di conseguenza si fa romanzo. Ma il protagonista che tipo è? Come vede il mondo? Cosa pensa? Come lo definiresti? 

Ancora più di journal intime parlerei di soliloquio, ovvero di diario che non viene propriamente scritto. Il mio desiderio era di utilizzare questa forma in modo apparentemente banale per poi aprirla e ribaltarla. Il punto è proprio quello che tu hai individuato: accogliere altre vite dentro di sé, e dunque arrivare alla “coralità” romanzesca. Anche a costo di inventarsela. Quando dico che è un romanzo-nonostante intendo anche dire che Tredici lune critica forme e strutture che, in una particolare declinazione, va a usare. Ad esempio ogni volta che raccontavo una scena di bassa quotidianità pensavo alle famose tirate di Arbasino contro i romanzi da tinello. Ma io ho il narratore chiuso in un tinello, e allora quel tinello provo a farlo diventare multiplo, addirittura cosmico (nell’ultimo capitolo). Il protagonista non lo sa come vede il mondo o meglio più va avanti meno si fida dei suoi automatismi. E sopra e prima di tutto il resto pensa a Elsa, la donna amata. Un testo che sta dietro Tredici lune è l’Ortis, più precisamente le vecchie lezioni di Sanguineti sull’Ortis, sull’esaurimento nervoso che è anche un esaurimento storico. Io ho deciso di narrare da lì, da quella posizione di scacco, ma senza rassegnazione, e pure il protagonista lo definirei un uomo sotto scacco ma non rassegnato.

L’ironia è una presenza costante. Ironia sulle norme e i divieti anti-Covid cui il protagonista maldestramente e ragionevolmente si adatta (salvo immaginare un proprio doppio che li trasgredisce). Ironia sull’inadeguatezza cognitiva di certo mondo letterario e culturale di fronte alla pandemia. Sono pochi, mi pare, i brani drammatici. Pensi che l’ironia, come potrebbe essere anche l’erotismo, valga come arma di sopravvivenza, come “respirazione artificiale” entro un tempo mortifero?

Spero che in Tredici lune ci sia un certo pudore verso il dramma a buon mercato e verso il dramma che non si conosce direttamente, ma spero pure che i pochi momenti drammatici siano molto “pesanti”. Ironia è un termine problematico, perché in letteratura oggi ricorda soprattutto postmoderni invecchiati male oppure arguzie mediocri. L’ironia di Tredici lune, almeno nelle mie intenzioni, è rifiuto della retorica, compresa l’onnipresente retorica dell’antiretorica; è un’ironia romantica, radicale e stupefatta, che non parla dall’alto. Non mi interessava essere arguto e simpatico, anche se volevo che il narratore riuscisse “simpatico” al lettore, ma lo doveva essere senza ammiccare, senza cercare il consenso con la strizzata d’occhio. Devo tuttavia confessare che provo grande imbarazzo nel descrivere cosa ho tentato di fare, perché, come sai bene, il mondo è pieno di scrittori che “tematizzano” in modo affascinante il loro lavoro e scrivono romanzi orribili. Insomma le mie intenzioni e le mie riflessioni contano poco, posso solo augurarmi che Tredici lune realizzi almeno in parte quello che mi proponevo di fare. Perché, sì, nelle mie intenzioni e riflessioni è un bel libro.

Parliamo di precarietà. Tra i personaggi c’è una ragazza, la “ridercatrice”, che si paga gli studi di dottorato lavorando come ciclofattorina. Un’altra fa la ghostwriter per nomi più o meno noti. Tutti, in un modo o nell’altro, si arrangiano. È solo un aspetto realistico, visto che racconti in gran parte il mondo dell’editoria italiana, o c’è dell’altro nell’esposizione di tante e tali fragilità?

Molti miei personaggi si arrangiano e arrabattano e soprattutto considerano normale arrangiarsi e arrabattarsi perché questo è quello che io vedo intorno, non solo nell’editoria (l’ambiente lavorativo che conosco meglio). Dunque la precarietà e la fragilità sono, per riprendere le tue parole, un aspetto realistico, così come lo stretto rapporto tra queste e l’ulteriore ascesa delle grandi piattaforme digitali, che in generale tanto hanno beneficiato, economicamente, dalla pandemia. Poi la precarietà e fragilità sono anche esistenziali. Lo erano già prima della pandemia, ma la pandemia è stata, in questo senso, un formidabile amplificatore.

C’è una parola che ti è rimasta dentro in questo periodo? Una che non avevi mai frequentato e adesso usi molto. Una che usavi dandole un significato diverso? Insomma, se dovessi scegliere una parola della pandemia, quale sceglieresti?

Socialità, una parola spigolosa delle scienze umane e con spigolose armoniche carcerarie (“la socialità”). Prima, quando avevamo (e potevamo persino scegliere di non avere) normali rapporti sociali, non ricorrevo mai al termine astratto, all’essenza di quello che ora non c’è più. Oggi invece penso molto al “bisogno di socialità”.