Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta apparentemente il tema del rapporto tra sviluppo e ambiente, industria e territorio, tecnica e natura, inquinamento e salute, è già correttamente impostato, almeno sul piano teorico, in una mirabile stagione che Giorgio Nebbia amava ricordare come “Primavera ecologica”. Mezzo secolo è un tempo lunghissimo se rapportato alla velocità parossistica dei cambiamenti e del funzionamento del mondo contemporaneo e, quindi, sembra doveroso a questo punto abbozzare una valutazione complessiva di quanto è avvenuto e se sia compiuta quell’inversione di rotta auspicata dai padri del pensiero ecologista.

Ma come reagiscono la società e la politica? Per un certo periodo, fino agli anni Novanta, da un canto attraverso la rimozione, dall’altro rinviando il più possibile l’adozione di norme e regole, annacquandone comunque l’applicazione effettiva, se non incoraggiando apertamente gli “spiriti animali” del capitalismo a prendere la rivincita su chi tentava di imbrigliarli, facendo valere il peso di una contraddizione inedita o percepita come tale.

La rimozione sostanzialmente continuerà nei decenni più recenti, anche se si accompagnerà a un maquillage green di facciata. La stessa importante iniziativa operaia degli anni Sessanta e Settanta per il miglioramento degli ambienti di lavoro e per la prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni, rimarrà stretta all’interno dei perimetri delle fabbriche e verrà poi colpita pesantemente dalle ristrutturazioni produttive degli anni Ottanta, che finiscono con il dissolvere i gruppi omogenei e ridimensionare la forza contrattuale dei lavoratori.

Nonostante vi sia in alcuni ambienti sindacali la consapevolezza dell’ineludibilità del rapporto con l’ambiente esterno, il territorio e la cittadinanza, in generale non si riesce a compiere il salto producendo iniziative di qualche rilevanza. La svolta neoliberista degli anni Ottanta, infine, annichilisce ogni velleità del sindacato di porsi come soggetto sociale, confinandolo in ruolo puramente difensivo. In questo contesto i “casi” che emergono alla luce del sole sono riconducibili a eventi e incidenti eclatanti, come l’Icmesa di Seveso e in qualche misura la Farmoplant di Massa e Carrara, oppure a una evidente e pesante contaminazione indotta nell’ambiente esterno come nel caso dell’Acna di Cengio o di Bussi sul Tirino. In generale, invece, soltanto dopo la chiusura dell’impianto per ragioni intrinseche (obsolescenza tecnologica o dei prodotti, crisi finanziaria, strozzature di mercato...) se ne scoprono i danni provocati nell’ambiente circostante e sul territorio.

Insomma solo nel momento in cui viene meno la motivazione produttiva intesa come anima dello sviluppo, si inceppa quel meccanismo di “autocolonizzazione” fino ad allora accettato proprio in nome del progresso, come sta ancora oggi a dimostrare il conflitto tra ambiente e lavoro dell’Ilva di Taranto. Quando la fabbrica chiude, è come se si squarciasse un velo mostrando a quel punto tutte le brutture, la faccia oscura, di certa industrializzazione. Se si scorrono i 58 siti industriali inquinati “di interesse nazionale” si scopre come in buona parte siano riconducibili a questa fattispecie.