Il baricentro del dibattito climatico si sta spostando lontano dall’Occidente. Alla Cop30, ospitata nel cuore dell’Amazzonia, sono i Brics a dettare il ritmo: Cina e Brasile rivendicano che la transizione non può ignorare sviluppo e lavoro. È un cambio di prospettiva globale. Cosa significa una transizione “giusta” in questo nuovo assetto politico e geopolitico?

Nel negoziato la risposta potrebbe chiamarsi Belem Action Mechanism, ovvero Bam. Il Bam, sostenuto dal gruppo G77 (134 Paesi in via di sviluppo, principalmente del Sud del Mondo, ndr) più Cina e spinto dalla società civile, Climate Action Network in primis, punta a creare un coordinamento internazionale che oggi non esiste.

Perché attualmente solo il 2,8 per cento della finanza climatica globale sostiene iniziative di transizione giusta: una cifra irrisoria, mentre l’uscita dai fossili implica riconversioni industriali, protezione dei popoli indigeni e norme più chiare sulla filiera dei minerali critici. Ma l’Unione europea, pur riconoscendone l’importanza, blocca l’idea di un nuovo meccanismo: teme doppioni, costi e aspettative ingestibili. Ha ragione o sta difendendo un ordine che non funziona più?

Chi deve pagare di più?

Il dialogo internazionale si sta irrigidendo proprio sul nodo cruciale: chi deve fare di più, chi deve pagare e secondo quali metriche. I Paesi del Sud globale insistono perché il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” resti centrale: nessuna transizione potrà funzionare se non riconosce che la crisi climatica è figlia soprattutto delle emissioni storiche dell’Occidente. L’Europa rivendica il proprio ruolo di apripista, ma l’efficacia del suo modello dipenderà da quanto saprà coinvolgere e convincere gli attori che oggi stanno ridisegnando gli equilibri geopolitici globali.

Riconvertire e adattare

È in questo quadro che l’Italia si trova davanti a una doppia urgenza: riconvertire il proprio sistema produttivo per restare competitiva e, allo stesso tempo, adattarsi a impatti climatici già pienamente in corso. Gli eventi estremi stanno già erodendo quote significative di ricchezza nazionale: in Italia i danni economici diretti superano i 100 miliardi di euro negli ultimi vent’anni, secondo l’Ispra, e l’alluvione in Emilia-Romagna del 2023 da sola ha prodotto un impatto stimato oltre i 9 miliardi.

Secondo stime europee, senza misure di adattamento diffuse, il costo climatico potrebbe sottrarre fino al 3 per cento del Pil entro il 2050. In linea con le indicazioni del Just Transition Work Programme dell’Onu, serve una prospettiva multidimensionale di transizione giusta, che non riguardi solo la decarbonizzazione ma anche il modo in cui lavoro, imprese e territori possano reggere uno stress ormai strutturale.

A oggi, tuttavia, l’Italia non dispone di alcuna strategia nazionale per la transizione giusta. Il Just Transition Fund copre solo Taranto e il Sulcis, scade nel 2027 e procede tra bandi in ritardo e governance debole.

Non c’è un progetto politico

“Le analisi indipendenti mostrano un quadro molto chiaro - spiega Giulia Colafrancesco, analista esperta in governance e giusta transizione del think tank Ecco -. La giusta transizione in Italia non è ancora un progetto politico, è semmai un insieme di interventi frammentati, spesso reattivi e non integrati. Anche il percorso di revisione del Pniec ha evidenziato questa mancanza: il piano parla di decarbonizzazione e di traiettorie settoriali, ma non prevede strumenti né processi di governance per gestire gli impatti occupazionali, territoriali e sociali”.

Voragini occupazionali

Nel frattempo le riconversioni industriali aprono voragini occupazionali: secondo il Joint Research Centre in Europa la transizione potrebbe creare 2,5 milioni di nuovi posti entro il 2030, ma senza piani nazionali rischia anche di distruggerne decine di migliaia. Perché l’Italia non prepara il terreno?

L’Italia? Sta a guardare

Roma ha invece scelto di rallentare anche in sede europea. Nelle recenti discussioni per l’aggiornamento dell’obiettivo di decarbonizzazione al 2040, il governo ha spinto e ottenuto l’inserimento di flessibilità e di un maggiore uso dei crediti internazionali, pur al costo di perdere tra i 15 e i 21 miliardi dell’Ets2, risorse cruciali per proteggere famiglie e imprese. Una scelta sorprendente, considerando che tutti gli studi convergono: l’inazione costa più dell’azione, tra perdite agricole, sanitarie, infrastrutturali e industriali. A chi conviene davvero questa prudenza?

E allora l’ultima domanda è inevitabile: può un Paese con il 10 per cento delle famiglie che detiene il 60 per cento della ricchezza permettersi di difendere lo status quo? La transizione giusta non è un lusso né un costo eccessivo. È l’unico modo per uscire dalle disuguaglianze, rafforzare l’economia e non restare, ancora una volta, tra quelli che rincorrono il cambiamento invece di guidarlo.

Viola Ducati, divulgatrice ambientale e attivista climatica