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Alla Cop30 di Belém c’è un elemento che più di altri sta segnando la differenza: la società civile che è tornata al centro della scena. Popoli indigeni, movimenti ecologisti, organizzazioni sociali, sindacati e comunità amazzoniche stanno riportando nel cuore del negoziato una verità necessaria: la crisi climatica è una questione di giustizia.
Dentro e fuori i padiglioni della Cop azioni, marce, assemblee, campagne di denuncia e proposte politiche stanno mostrando che le istanze partecipative sono in ottima salute e raccolgono consenso sociale. Le strade di Belém in questi giorni raccontano il volto sociale della transizione. Barche di comunità fluviali, tamburi tradizionali, volti e corpi indigeni che bloccano a più riprese gli ingressi della conferenza declinano la sfida climatica come questione che attiene a diritti, lavoro, equità, democrazia. Il messaggio è che non c'è giustizia climatica possibile senza la partecipazione reale di comunità e popoli vulnerabili e senza la fine del modello estrattivo che alimenta crisi climatica e disuguaglianze sociali.
Un trattato per fermare il fossile
Fra le proposte più discusse c’è quella del trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, un’iniziativa nata sei anni fa e divenuta centrale in questa Cop, che punta a fermare l’espansione di carbone, petrolio e gas e pianificarne l’uscita graduale in modo equo. È una richiesta che arriva da governi insulari del Pacifico, comunità indigene, sindaci, associazioni e movimenti climatici. A sostenerla oltre 4 mila organizzazioni sociali e 17 Paesi.
La proposta si basa su tre pilastri: stop ai nuovi progetti fossili, riduzione programmata della produzione, con maggior impegno da parte dei Paesi più responsabili delle emissioni storiche, tutela dei lavoratori, delle comunità e delle economie locali coinvolte.
Colombia in primo piano
Alla Cop30 la Colombia ha assunto un ruolo di primo piano, sostenendo l’avvio di un percorso negoziale formale e trasformando il tema della campagna in una dichiarazione, la Belem declaration, il cui fulcro è proprio il Taff (Transitioning away from fossil fuels) che attende di essere ripreso e consolidato dalla Cop28 di Dubai.
Ora l’obiettivo delle reti promotrici è far entrare questa proposta nel testo finale della conferenza e ottenere un mandato negoziale vero e proprio. L'idea di consacrare il Taff in un trattato e di affermare questa possibilità proprio in Amazzonia significa riconoscere che i luoghi più sfruttati dal modello estrattivo devono essere anche quelli in cui si apre una prospettiva diversa. Il prossimo appuntamento della campagna sarà a fine aprile in Colombia, a Santa Marta, per consolidare le alleanze politiche e progettare i prossimi passi.
Amazzonia soggetto politico
Dalle comunità indigene amazzoniche arriva una seconda proposta cruciale qui a Belèm: A Resposta Somos Nós, La risposta siamo noi, lanciata nel 2024 dal Coiab, Coordinamento delle organizzazione indigene dell'Amazzonia brasiliana, e rilanciata con forza verso il vertice delle Nazioni Unite. Al centro c’è la richiesta di demarcazione immediata e definitiva delle terre indigene.
Perché parlare di terre indigene dentro una conferenza sul clima? Perché i territori tradizionali sono una delle forme più efficaci di tutela della foresta. Dove i diritti sono riconosciuti, deforestazione ed emissioni crollano. Si tratta dunque di una misura climatica concreta, non di una rivendicazione settoriale. Probabilmente grazie anche alle proteste indigene che hanno scompigliato la tranquillità della zona blu, Lula ha accolto le richieste firmando nei giorni scorsi la demarcazione di 10 territori ancestrali.
Durante l’acampamento terra livre dello scorso aprile, migliaia di attivisti e leader indigeni hanno ribadito che la difesa dei territori è una colonna portante della transizione. Dalla loro assemblea è nata una dichiarazione politica per la Cop30, sostenuta anche da reti internazionali di artisti e attivisti.
Tassare i voli di lusso
Alla Cop30 si è affermato anche un filone di mobilitazione focalizzato sulla giustizia fiscale legata al clima. Una delle proposte avanzate riguarda l’introduzione di una tassa sui voli in business, executive e prima classe, responsabili di un’impronta carbonica superiore rispetto ai voli standard.
La Premium Flyers Solidarity Coalition, che promuove una ticket levy su voli business/first class e l’uso di jet privati è supportata dalla Gsltf, Global Solidarity Levies Task Force, cui aderiscono otto Paesi: Francia, Kenya, Barbados, Spagna, Somalia, Benin, Sierra Leone e Antigua e Barbuda. La coalizione lavora per migliorare il contributo del settore dell'aviazione alla transizione equa e alla resilienza, con particolare attenzione ai viaggiatori frequenti. Anche la commissione europea ha espresso sostegno alla proposta.
La ricerca Whitepaper: International aviation levies pubblicata a giugno dall'Air Transport Action Group stima che l'applicazione di tariffe differenziate per le classi premium sotto forma di tassa sul cherosene per i voli internazionali potrebbe portare a un gettito annuo tra 6 e 20 miliardi di euro a seconda dell'aliquota applicata.
Un'altra opzione sarebbe una tassa modulare su tutti biglietti aerei (con aliquote diverse tra classe economica e classe premium, per esempio di 10-30 dollari per la classe economica su base volontaria, e di 20-120 dollari per i posti in classe premium) o una tassa sui viaggiatori frequenti (di più difficile applicazione) che potrebbero generare tra 40 e 300 miliardi di dollari di gettito (realisticamente attorno ai 100 miliardi di dollari all'anno), a seconda dei biglietti tassati e della copertura globale.
Grandi patrimoni e inquinatori
Accanto a questa misura, movimenti e Ong chiedono nuove imposte su grandi patrimoni, sui profitti delle corporation legate ai combustibili fossili e investimenti ad alta emissione. L’obiettivo è finanziare misure di mitigazione, adattamento climatico e politiche sociali nei territori più esposti.
La discussione mette in luce un punto fondamentale: la giustizia fiscale deve essere parte della soluzione alla crisi climatica. Se chi ha meno responsabilità paga il prezzo maggiore, chiedere ai segmenti più inquinanti e più privilegiati della società di contribuire di più a livello economico significa rendere esplicito il legame fra emissioni, ricchezza e potere.
Le violenze ai difensori dell'ambiente
Tra le azioni che hanno segnato questa Cop ce n’è una che ha fatto il giro dei padiglioni per denunciare la violenza contro gli attivisti ambientali. L’azione di Belém ha portato nomi e storie: quella di Maria do Socorro Costa da Silva, leader quilombola di Barcarena (abitante di una comunità di discendenti di schiavi africani fuggiti in Brasile durante il periodo schiavista, ndr) che denuncia da anni l’inquinamento da metalli pesanti provocato dalla più grande raffineria di alluminio dell’Amazzonia, minacciata per il suo impegno; quella di Paulo Sérgio Almeida Nascimento, leader indigeno ucciso dopo aver denunciato crimini ambientali.
Le loro storie non sono un’eccezione: secondo la ricerca Na Linha de Frente: Violência contra Defensoras e Defensores de Direitos Humanos no Brasil, pubblicata nel 2025 da Terra de Direitos e Justiça Global, tra il 2023 e il 2024 in Brasile sono stati registrati 486 episodi di violenza contro difensori dei diritti umani, di cui 55 omicidi. Il rapporto evidenzia che l’80,9 per cento delle vittime era impegnata nella difesa del territorio, dell’ambiente o dei diritti delle popolazioni tradizionali; il 37 per cento apparteneva a comunità indigene, quilombola o rurali; e la quasi totalità delle violenze è avvenuta in contesti segnati da conflitti agrari, estrattivismo minerario, deforestazione e speculazione fondiaria.
Minaccia alla democrazia
La minacce ai difensori dell'ambiente sono in verità un’emergenza globale. Intimidazioni, assassini, misure repressive, persecuzioni giudiziarie e campagne diffamatorie interessano con geometrie variabili tutti i continenti (in Italia i decreti ecovandali e sicurezza hanno accelerato e aggravato il processo di criminalizzazione in atto). I difensori che proteggono territori e comunità sono tra i primi bersagli di governi e poteri economici basati su estrazione, accumulazione e violenza. Così, la crisi climatica “gestita” dalle destre si trasforma anche in una minaccia a democrazia e diritti fondamentali.
La repressione dei difensori dell’ambiente è uno dei nodi più dolenti della lotta per la giustizia climatica. Senza protezione per chi difende territorio, acqua e foreste, parlare di transizione giusta è solo uno slogan. È questo il messaggio che l’azione ha voluto portare dentro la Cop: non c’è giustizia climatica senza libertà di chi la difende ogni giorno.
La risposta siamo noi
Proposte, campagne e azioni della società civile rimettono al centro il ruolo della distribuzione del potere nella lotta contro il riscaldamento globale. Chi decide? Chi paga il prezzo più alto? Chi resta escluso? Le proposte che hanno attraversato Belém indicano alcune piste di lavoro necessarie: mettere al centro lo stop alla produzione di energia fossile, promuovere la difesa dei territori come misura climatica, considerare le proposte fiscali strumenti di azione climatica e di riequilibrio delle disuguaglianze socioeconomiche, proteggere i diritti e la sicurezza dei difensori dell'ambiente per tutelare le libertà democratiche.
Questa Cop sarà un punto di svolta se contribuirà a riconoscere il portato politico del protagonismo sociale e a consacrare l'efficacia delle proposte avanzate. La soluzione alla crisi climatica passa per il rafforzamento dei diritti, la redistribuzione delle risorse, la partecipazione di comunità, popoli e territori. La risposta, come ricordano i movimenti amazzonici, siamo noi.
Marica Di Pierri, A Sud






















