C’è un che di sublime in questa nuova liturgia del sospetto, con la premier che attraversa Roma come un personaggio Harry Potter e sale al Colle a mezzogiorno e quarantacinque, ora propizia alla diplomazia del tacito rimprovero. Il presidente l’accoglie con l’imperturbabile serenità di chi ha già visto tutto, compresi i fantasmi che i suoi accusatori immaginano a colazione.

La destra invece danza attorno alla polemica con la grazia di un cinghiale in un negozio di cristalli. Prima evoca complotti, poi pretende scuse, infine giura che era solo una domanda. Un balletto involontario che fa rimpiangere i tempi in cui le congiure almeno avevano un copione decente e non nascevano tra un piatto di spaghetti e un registratore sottobanco.

Poi c’è la scena madre. Il consigliere quirinalizio che, secondo La Verità, avrebbe evocato liste civiche taumaturgiche e invocato la provvidenza come se fosse un influencer del destino nazionale. Da lì il salto carpiato della narrazione. Un mormorio in trattoria diventa il presunto disegno di un presidente asceta che sogna di fermare la premier con un cenno del sopracciglio.

Mattarella, che pure avrebbe tutte le ragioni per riderne di gusto, sceglie la via maestra. Replica con severità calibrata e lascia cadere sull’improvvisata messinscena un gelo da conservatorio nordico. Chi lo frequenta assicura che nessuno riuscirà mai a intimidirlo. Tanto meno chi gioca a fare il ribelle di governo mentre si perde nei corridoi della logica.

Il resto lo farà il tempo. Si vedrà se è solo una parentesi o l’inizio di un conflitto che la destra sembra quasi desiderare, forse per darsi un brivido di gravitas che sfugge. Intanto resta una certezza. Le fiabe del golpe al contrario rivelano più fragilità che audacia. E mettono in scena una destra che combatte ombre pur avendo davanti un presidente in carne e ossa che continua a ricordarle cosa significa davvero servire la Repubblica.