La nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2015 (Def) dovrebbe informare sul quadro pluriennale macroeconomico e di finanza pubblica presentato nel documento programmatico ad aprile scorso in ragione dell’andamento della congiuntura economica e dei conti pubblici, formulando le nuove previsioni e i nuovi obiettivi da presentare alle istituzioni europee (nel Draft Budgetary Plan entro il prossimo 15 ottobre) e, dunque, da proporre al Parlamento con il disegno di legge di stabilità 2016.

Tuttavia, già nella relazione al Parlamento del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia, che accompagna la nota stessa, anziché descrivere gli effettivi lineamenti della politica di bilancio, i risultati delle misure intraprese e i nuovi obiettivi dell’economia pubblica, si racconta uno scenario molto più positivo e ottimista del contesto reale. Il governo sfrutta scientemente la speranza popolare nella fine della crisi, mistificando persino i numeri e i dati, esagerando i segnali congiunturali positivi e spacciandoli per strutturali, trascurando deliberatamente i confronti internazionali e gli squilibri che caratterizzano l’economia italiana, evocando una politica espansiva che richiama invece solo una linea europea di “austerità flessibile”. Non a caso, e nonostante gli annunci e l’apparente critica alla politica economica europea, nella relazione al Parlamento si ammette la continuità con i governi precedenti.

In coerenza con la precedente legge di stabilità, il quadro macroeconomico programmatico del governo è costruito attorno a un impianto liberista, fondato sulla svalutazione competitiva del lavoro e sulla contrazione dell’intervento pubblico in economia. Benché siano riconosciuti gli elementi di fragilità del contesto internazionale e l’incertezza della ripresa, le previsioni di crescita per il 2016 e per gli anni successivi continuano a presentarsi molto ottimistiche e, perciò, davvero poco realistiche.

La prima scommessa ingiustificata del governo riguarda proprio le esportazioni, che si attesterebbero attorno al 4% da qui al 2018, sebbene il Fmi abbia già ridefinito la crescita mondiale in calo e, anche qui per la prima volta, al di sotto del ritmo di crescita demografica. Prevedendo, poi, un aumento poco plausibile anche delle importazioni, addirittura superiore all’export, il contributo della domanda estera alla crescita della domanda aggregata risulta marginale. Appare evidente che il governo conferma la scelta di adesione a una politica europea tutta orientata sulla competitività o, per meglio dire, sulla competizione da costi, che a livello internazionale accentua le tensioni geopolitiche in corso.

La vera scommessa del governo, però, vorrebbe essere la forte crescita della domanda interna. A partire dal 2016, la variazione dei consumi e soprattutto degli investimenti privati, dovrebbe contribuire significativamente alla crescita del Pil, come mai avvenuto negli ultimi 8 anni. Ovviamente, la giustificazione teorica del governo troverebbe fondamento nella “fiducia” impartita dalle riforme strutturali e dal rigore dei conti. Inutile sottolinearne l’infondatezza.

Non è casuale che nella nota si programmi un tasso di disoccupazione sopra il 10% anche al 2019. Ciò significa che, con la legge Fornero e senza cambiamenti dell’assetto previdenziale, si programma un tasso di disoccupazione giovanile attorno al 40% per tutti i prossimi 5 anni. Una scelta poco sensata anche in riferimento all’inflazione, che non si prevede superi mai l’1,9% dal 2015 al 2019. Tale previsione programmatica va letta accanto a quella sul costo del lavoro. Non a caso, nel quadro previsionale 2015-2018 i salari crescerebbero meno della produttività e, in alcuni anni, anche dell’inflazione. Naturalmente, non c’è parola (né copertura) per il rinnovo dei contratti nazionali per i lavoratori pubblici.
 

 

Dalle proiezioni presentate nella nota emerge con chiarezza la debolezza strutturale dell’economia italiana che ne ha caratterizzato il declino già prima della crisi e che va prevalentemente attribuita alle carenze del capitale, cioè quantità e qualità degli investimenti e potenzialità dell’attuale struttura produttiva (polarità del sistema di imprese in primis su dimensione d’impresa e specializzazione produttiva), e alle carenze di sistema (legalità, infrastrutture materiali e immateriali, inefficienze dei mercati, modernizzazione della macchina pubblica ecc.): nodi strutturali che indicano la necessità di nuove politiche industriali, fiscali e sociali e su cui si dovrebbero concentrare le vere riforme strutturali. Ma delle quali non c’è traccia. Nessuna proposta di riforma è tesa alla qualificazione produttiva, all’innovazione o ad affrontare le arretratezze di sistema.

Il governo dichiara di affrontare le difficoltà dell’economia, nazionale e sovranazionale, “rivedendo e attenuando la velocità del consolidamento fiscale”. Lo scarto su cui si dovrebbero recuperare più risorse, infatti, sta tra il dato dell’indebitamento netto tendenziale in rapporto al Pil del 2016 (meno 1,4%) e l’obiettivo programmatico (meno 2,2%), circa 13 miliardi di euro. In realtà, però, rispetto al dato 2015 (meno 2,6%) il deficit viene ridotto e i margini di spesa si contraggono da un anno all’altro. Quindi, anche se il saldo primario programmato ad aprile nel Def era pari al 2,4% del Pil e il tendenziale attuale al 2,9% (in assenza di interventi e sulla base della normativa vigente), nella nota di aggiornamento si programma comunque un considerevole avanzo primario (2,0%, ovvero 33,6 miliardi di euro).

Il pareggio di bilancio strutturale preteso dal Fiscal compact – ammesso che le previsioni di crescita del PIL si verifichino per la prima volta dall’inizio della crisi – verrebbe così raggiunto nel 2018 piuttosto che nel 2017, un anno in più rispetto a quanto concordato in Europa. Ma si tratta sempre di operare tagli alla spesa a scapito della crescita, anche nel 2016, che di certo non possono identificare manovre di bilancio espansive, ovvero con un saldo primario a segno negativo. Insomma, la manovra annunciata per la legge di stabilità 2016 è ancora restrittiva.

Guardando alla composizione del saldo di bilancio – che il governo sottolinea essere “più rilevante dei saldi” –, data dalla variazione delle singole voci di spesa e di entrata, con i conseguenti effetti moltiplicativi per l’economia e per la stessa finanza pubblica, si evidenziano due operazioni, richiamate anche nel crono programma delle riforme da fare: un piano triennale di riduzione delle tasse e una progressiva, ulteriore e parallela riduzione della spesa pubblica e del patrimonio pubblico (la Commissione europea, peraltro, preferirebbe solo una riduzione della tassazione sul lavoro e sulle imprese). Nel 2016, con la legge di stabilità, il governo intende abolire Tasi e Imu per una riforma della tassazione locale che costa circa 5 miliardi di euro di mancato gettito per la finanza statale e locale. Nel 2017 si annuncia una nuova riduzione della tassazione sulle imprese (Ires e Irap) e, infine, nel 2018 una ridefinizione dell’Irpef.

Il governo intende “porre particolare enfasi su di una intonazione fiscale più favorevole alla crescita, pur nell’equilibrio indispensabile con il progressivo consolidamento dei conti pubblici”. Eppure, la scelta di ridurre le tasse e tagliare la spesa – di palese matrice liberista – va in direzione contraria a ciò che andrebbe fatto: cambiare le entrate, spostando il peso del prelievo sui grandi patrimoni e sulle rendite, e aumentare la spesa pubblica per sostenere la domanda effettiva. Ciò può avvenire solo fermando il calo strutturale degli investimenti delle Regioni e delle autonomie locali (costretti al pareggio di bilancio nel 2016) e scegliendo una politica espansiva nel lavoro pubblico e nel welfare (con priorità al contrasto della povertà assoluta, al superamento della legge Fornero e al finanziamento del sistema sanitario), soprattutto nel Mezzogiorno (per il quale dovrebbero essere programmati nuovi investimenti pubblici, nuova spesa sociale e incentivi selettivi).

Già solo per disinnescare le famigerate clausole di salvaguardia previste dalle precedenti leggi di stabilità (aumento delle aliquote Iva e accise per la mancata autorizzazione da parte della Commissione europea del reverse charge al settore della grande distribuzione; revisione del sistema di agevolazioni, le tax expenditures), si richiede un recupero di risorse pari a oltre 17 miliardi di euro nel 2016, circa 26 miliardi nel 2017 e di poco meno di 29 miliardi nel 2019. Calcolando la differenza fra le risorse recuperate con la “flessibilità” di bilancio concessa dall’Europa e il costo della sterilizzazione della clausola di salvaguardia, per realizzare l’abolizione Tasi-Imu, mancano circa 10 miliardi di euro di risorse all’appello, che sicuramente verranno ricercate in una nuova riduzione della spesa pubblica e del finanziamento della spesa per i servizi pubblici.

* Coordinatore area Politiche di sviluppo Cgil