Per molti mesi in Italia non si è sentito parlare del negoziato fra Ue e Usa per un accordo transatlantico su commercio e investimenti. Chi, come i sindacati, se ne occupava da tempo, non trovava ascolto e ancor meno risposte. L’indispensabile confidenzialità del negoziato commerciale era come sempre la ragione invocata dal governo per mantenere i contenuti della trattativa al riparo dai dubbi, insieme a un’ottimistica quanto vuota rassicurazione sugli effetti benefici garantiti per tutti dalla conclusione dell’accordo. La famosa formuletta win-win, tutti ci guadagneranno. Eppure, già nei primi mesi di quest’anno molte preoccupazioni si manifestavano in Italia sulla fondatezza di previsioni che apparivano eccessivamente rosee e, soprattutto, destituite di fondamento.

Questa situazione non è nuova a chi nel movimento sindacale italiano e internazionale si è confrontato per anni con la difficoltà di ottenere dai responsabili delle politiche commerciali un serio e costruttivo confronto sulle ripercussioni di accordi sulle regole del commercio. La necessità di una reale valutazione ex-ante di impatto, in particolare occupazionale, fu sollevata dai sindacati all’Organizzazione mondiale del commercio già dopo la fallita Conferenza di Seattle del 1999. In particolare, si chiese che l’Omc collaborasse seriamente con l’Organizzazione internazionale del lavoro per gettare le basi di valutazioni scientificamente fondate delle conseguenze sul lavoro nei paesi coinvolti in un accordo commerciale. Il movimento sindacale, riconoscendo l’oggettiva complessità di previsioni in materia, denunciava al tempo stesso l’inaccettabilità di promesse senza fondamento e di interessi di parte spacciati per benefici per tutti. Il mantra win-win veniva ossessivamente ripetuto, a volte accompagnato dall’ammissione che sì, forse avrebbero potuto esserci perdite di posti di lavoro in alcuni settori, ma certamente compensate da nuove opportunità nelle produzioni per le quali si aprivano nuovi orizzonti di esportazione. Tutto questo mentre i sindacati, soprattutto dei paesi più fragili, denunciavano che il conto perdite-guadagni di posti di lavoro dopo nuovi accordi commerciali proprio non tornava. Nessuno aveva detto loro che si sarebbe perso lavoro regolare e meglio remunerato, mentre i nuovi posti si sarebbero creati nelle zone di produzione per l’esportazione, mal pagati e con meno diritti, oppure in settori che non richiedevano le qualifiche espulse da quelli penalizzati.

Ci vollero alcuni anni perché si arrivasse, nel 2006, alla produzione di uno studio congiunto Omc-Oil sul rapporto fra commercio e occupazione. Esso constatava con ragione la difficoltà di una seria e fondata valutazione ex-ante, ma soprattutto riconosceva l’assenza di esperienza pratica. Gli ultimi anni hanno visto un accresciuto impegno di ricerca di accademici ed esperti internazionali. Analogo impegno, tuttavia, non si può dire che si sia manifestato nella pratica dei responsabili politici. La valutazione di impatto sui vari settori produttivi, sulle diverse categorie di popolazione, sul loro reddito e sul loro lavoro, sull’ambiente e la salute: tutto ciò dovrebbe costituire lo strumento indispensabile ai responsabili politici per decidere della stipula di un accordo commerciale. Uno strumento fondamentale anche di democrazia, per la corretta informazione di cittadini e parlamenti e per trasparenti processi decisionali. Ovviamente, stiamo parlando di previsioni che abbiano fondamento scientifico, non semplicemente di facciate promozionali a sostegno di posizioni precostituite o a beneficio di interessi di parte.

Il negoziato Ttip ha suscitato l’attenzione dei ricercatori; la Commissione europea ha commissionato una previsione di impatto a livello comunitario e per il governo italiano Prometeia ha prodotto un rapporto di previsione. Nessuna di queste valutazioni giustifica grande ottimismo, in particolare per quanto riguarda l’Italia. A rimanere aperto è soprattutto un aspetto sostanziale, quello del parallelo impatto sugli scambi intracomunitari, che è indispensabile valutare perché il calcolo complessivo abbia fondatezza. Alcuni mesi fa, l’ex commissario Karel De Gucht si è lanciato in ottimistiche previsioni in particolare sugli effetti occupazionali, stimando la creazione di un milione di posti di lavoro nell’Ue, cifra che, inutile dirlo, in Italia evoca sinistri precedenti. D’altra parte, fa riflettere il dato, rilevato dal Corporate europe observatory, relativo alle consultazioni condotte dalla Commissione nella fase preparatoria del negoziato: il 92 per cento degli incontri con categorie produttive e società civile è avvenuto con delegazioni di aziende.

A pensar male si fa peccato, ma… Del Ttip si è cominciato a parlare dalla scorsa primavera, in particolare da quando si sono manifestate diffuse preoccupazioni proprio a partire dall’inconsistenza delle ragioni addotte a sostegno delle previsioni ottimistiche. Le piccole e medie imprese in tutta Europa, e specialmente in Italia, hanno espresso dubbi frettolosamente etichettati come suggeriti da paure infondate. Eppure è facile temere che a beneficiare delle nuove opportunità saranno la decina di grandi aziende che detengono la stragrande maggioranza dell’export italiano. Non basta che il governo, cui fa eco Business Europe, dia alla piccola impresa rassicurazioni generiche. Ancora all’inizio di settembre la presidenza Ue italiana non portava, a rasserenare quelle preoccupazioni, molto di più che una possibile formazione comunitaria per meglio fruire delle nuove opportunità. Purtroppo, è colpevolmente mancato un processo di valutazione ex ante, che – oltre ad avere fondatezza fattuale e rigore scientifico – includesse tutti gli attori economici e sociali coinvolti.

Oggi tutti si fanno campioni di trasparenza. In Italia, gli stessi che per mesi non hanno voluto coinvolgere davvero i diretti interessati – operatori della piccola impresa e dell’agricoltura, sindacati, consumatori – si impegnano in un tourbillon di eventi senza aver molto da portare al dibattito pubblico. Si parla di paure fomentate da ostilità ideologiche, si è riesumato addirittura l’antiamericanismo. I politici più attenti, o forse più furbi, dicono che la sola arma per sconfiggere le paure è la trasparenza. Questa però – lo diciamo noi – non può certo limitarsi alla tardiva pubblicazione del mandato negoziale. Serve fermarsi e lavorare con calma e serietà a una valutazione del possibile impatto del Ttip in tutti i suoi aspetti e in tutti gli ambiti della realtà economica, sociale, ambientale e democratica. Ma, soprattutto, serve un serio impegno di previsione delle ripercussioni sul lavoro: sulla quantità e la qualità dell’occupazione, nei diversi settori produttivi e aree del paese, sulle diverse categorie di lavoratrici e lavoratori, sui loro diritti e condizioni di lavoro, sulle tutele. Occorre assoluta chiarezza su garanzie e condizioni di compensazione per le perdite di posti riconducibili agli effetti dell’accordo, ma essa non può essere argomento di per sé sufficiente a giustificare effetti socialmente intollerabili. Nell’attuale condizione del mercato del lavoro in Italia, il governo non può certo esimersi da un’attenta e fondata valutazione delle ripercussioni di un possibile Ttip.

* Portavoce del Tuac